Martedì 12 settembre, mentre l’Italia di Spalletti otteneva la sua prima vittoria sconfiggendo l’Ucraina, a Bucarest la partita tra Romania e Kosovo veniva interrotta già nel primo tempo, a causa delle proteste dei giocatori ospiti verso uno striscione mostrato dai tifosi di casa. «Kosovo è Serbia» c’era scritto, riprendendo una nota rivendicazione dei nazionalisti serbi. Subito sopra, un altro striscione simile recitava «Bessarabia è Romania», paragonando la questione balcanica a quella tra Bucarest e la regione oggi nota come Moldavia.
🇽🇰El partido entre Rumanía y Kosovo fue suspendido por el momento ante el canticos de “Kosovo es de Serbia” por parte del público rumano. pic.twitter.com/Jy3nPmMomx
— Fútbol y Política (@FutboliPolitica) September 12, 2023
Si tratta solo di una partita, eppure i contenuti geopolitici richiederebbero pagine e pagine di approfondimento. Nulla di nuovo, perché ormai da diversi anni il calcio europeo, soprattutto durante la sosta per le nazionali, offre numerosi spunti di dibattito sulla politica internazionale: una rivista come Limes, se volesse, potrebbe dedicare un intero numero anche solo a uno o due turni delle qualificazioni europee, ritrovandosi piena di argomenti di cui discutere. Mentre ancora, in certi ambienti, resiste la retorica secondo cui sport e politica dovrebbero restare separati (come ribadito anche da Fifa e Uefa), la realtà quasi quotidiana racconta una storia ben diversa.
Un calcio figlio del nazionalismo
Non è un caso se, ogni volta che la Uefa deve effettuare un sorteggio dei gironi di qualificazione prevede alcuni accoppiamenti vietati, cioè alcune nazionali che non possono affrontarsi per nessun motivo. Come è immaginabile, tra di esse ci sono Kosovo e Serbia, anche se questo non basta a scongiurare tensioni in altri incontri.
Lo si è visto in Romania lo scorso martedì, ma anche nel 2018 per la gara dei Mondiali tra la selezione di Belgrado e la Svizzera, nella quale giocano diversi immigrati kosovari. L’esultanza di Xhaka e Shaqiri, che mimarono con le mani l’aquila albanese, fece il giro del mondo.
Dal canto suo, il Kosovo è uno Stato che ha costruito un’intera strategia politica sul calcio. Il riconoscimento da parte della Uefa nel 2016 ha aperto un precedente storico, permettendo al piccolo Paese balcanico di acquisire uno status preciso come squadra di calcio prima che come soggetto politico.
Ad oggi, solo centuno membri dell’Onu su centonovantatré riconoscono l’indipendenza di Pristina, che però gode di una posizione molto più solida in ambito sportivo. In poche parole, l’esistenza di una squadra nazionale di calcio è divenuto un prerequisito necessario per affermarsi in quanto Stato-nazione.
In questa strategia riecheggiano le parole dello storico Eric J. Hobsbawm, che già nel 1992 scriveva che «la comunità immaginata di milioni sembra molto più reale quando è incarnata da una squadra di undici». Questo per ricordare come da sempre il calcio per nazionali sia espressione di ideale (e ambizioni) nazionaliste, in quanto figlio della società ottocentesca.
Non è un caso se proprio la prima gara tra selezioni di questo tipo – di cui per altro nell’ultimo turno delle qualificazioni a Euro 2024 si è celebrato il centocinquantesimo anniversario – sia stata Scozia-Inghilterra. Ovvero non la sfida tra due Stati, ma tra due nazioni all’interno di uno stesso Stato.
Lo specchio delle fratture dell’Europa
Le rivalità tra nazionali sono cosa nota, ma la predisposizione dell’Europa a questo tipo di rivendicazioni affonda le sue radici nei travagliati eventi del Novecento. La formazione e la dissoluzione degli Stati multietnici, prima al termine della Grande Guerra e poi alla caduta del comunismo, ha riempito il continente di fratture politiche che non si sono più del tutto rimarginate.
Vale per i tristemente noti Balcani, ma non solo. Tant’è vero che nell’aprile 2021 furono i media spagnoli a rifiutarsi di pronunciare il nome del Kosovo, avversario durante una partita delle qualificazioni ai Mondiali. Nelle grafiche televisive, il nome del paese balcanico venne scritto in piccolo, e non fu mai chiamato «inno» l’inno nazionale kosovaro. Questo perché la Spagna non riconosce Pristina, dato che questo aprirebbe delle controversie in merito all’indipendentismo catalano.
Una situazione simile, ma con altri protagonisti, si è verificata lo scorso 8 settembre a Eskisehir, in Turchia, quando la tv locale ha silenziato l’inno dell’Armenia. I rapporti tra Yerevan e Ankara sono da sempre tesissimi a causa del genocidio commesso dai turchi tra il 1915 e il 1923.
Nella gara di andata, giocatasi a marzo, i tifosi armeni avevano esposto uno striscione con sopra scritto «Nemesis», il nome dell’operazione paramilitare condotta dalla Federazione rivoluzionaria armena tra il 1920 e il 1922, che portò all’uccisione di sette persone, turche e azere, responsabili del genocidio.
Quello tra Armenia e Azerbaijan è un altro fronte aperto, nella politica e nel calcio. Gli ultimi mesi hanno riportato al centro della cronaca estera la questione del Nagorno-Karabakh, il territorio storicamente conteso tra i due Paesi a cui gli azeri hanno imposto un discusso blocco, isolando la comunità armena.
Questo mese, l’Armenia ha siglato un accordo di cooperazione con gli Stati Uniti, vicini all’Azerbaijan, che ha permesso una distensione nella regione, e quasi in contemporanea, lunedì 11 settembre durante Armenia-Croazia, alcuni tifosi di casa sono riusciti a far volare sopra il terreno un drone che sventolata la bandiera dell’Artsakh, il soggetto politico armeno nel Nagorno-Karabakh.
Se la politica internazionale continua a essere co-protagonista di molti match di calcio europeo durante i turni di qualificazione, non va però sottovalutato il recente aumento di queste rivendicazioni, che stanno diventando sempre più frequenti.
I motivi sono senza dubbio molteplici, ma non si può non notare come tutto questo vada di pari passo con il risorgere dei nazionalismi in tutto il Vecchio Continente. E infatti dodici delle cinquantacinque federazioni affiliate alla Uefa rappresentano paesi che in questo momento hanno governi esplicitamente nazionalisti.