«Diciamo la verità: ero molto goffa, forse anche ridicolissima. Volevo far vedere che facevo finta di niente, andavo con quell’aria strafottente». Patrizia Cavalli descrive la sé stessa appena arrivata a Roma e ci tengo a dire che non è letteraria: è letterale. È chiunque di noi arrivata dalla provincia a una provincia più grande, e orrendamente giovane.
Quella volta di Sanremo avevo ventiquattro anni, e ho fatto due volte il conto perché mi ricordo bene che all’epoca ero proprio convinta d’essere un’adulta, e pensa te quali equivoci si attraversano in gioventù.
Quella volta di Sanremo mi avevano spedita lì perché la Rai, o almeno questa è la spiegazione che ricordo, comprava assieme al festival della canzone un pacchetto di eventi, tra cui quello che ricordo (ma potrei sbagliarmi) essere un premio di poesia, ero lì in rappresentanza della radio su cui conducevo un programma, ma non so bene a far cosa (spero non a giudicare poesie, poveri poeti).
So che a un certo punto dissi qualcosa dalla platea dell’Ariston, Ariston che come chiunque ci entri per la prima volta ero impegnata a meravigliarmi di quanto fosse piccino. Lo so perché sull’internet degli albori ci fu per qualche anno un fermoimmagine di me col microfono, mi ricordo il mio taglio di capelli e un golfino borgogna che indossavo, borgogna con una decorazione di pelo verde acido. A vent’anni si ha cattivo gusto davvero.
L’unica cosa che ricordo con precisione, perché il mio cervello è uno scolapasta ma diviene inappuntabile nella funzione «con questa frase un giorno ci scrivo qualcosa», è che Silvia Ronchey, che era anche lei tra gli ospiti di questa serata, e poverina si sarà illusa mi si potessero insegnare delle cose, a un certo punto mi presentò un tizio che registrai come decrepito.
Il tizio che registrai come decrepito, ho controllato su Google, quell’inverno aveva cinquantun anni, ma non divaghiamo. Silvia mi presentò il tizio e disse: è il più importante poeta italiano vivente. E io chiesi: cioè esistono poeti viventi?
Ci ho ripensato vedendo “Le mie poesie non cambieranno il mondo”, il documentario su Patrizia Cavalli di Annalena Benini e Francesco Piccolo, che è stato proiettato a Venezia ieri e a metà settembre uscirà nei cinema (esistono cinema viventi?) e poi a metà novembre verrà trasmesso su Rai 3. Ci ho ripensato chiedendomi mille volte: sì, ma come campi? (Una domanda che Benini e Piccolo non fanno mai, nonostante Cavalli abbia l’aria di una cui piace moltissimo parlare di soldi).
Ho messo in pausa e sono andata a rileggermi quel che scriveva Natalia Ginzburg cinquant’anni fa. Che «gli porti o non gli porti dei soldi, la poesia non è per i poeti una professione». Poi sono tornata a vedere “Le mie poesie non cambieranno il mondo”, dove in qualche modo la Cavalli risponde, alla domanda non fatta, e risponde mentre parla coi due documentaristi, nella parte strepitosa del film. La parte in cui è vecchia e coi capelli da chemioterapia e dice solo cose favolosissime. La parte meno strepitosa è quella d’archivio, che ha due funzioni, una voluta e una – credo – accidentale.
Quella voluta è farci vedere che Patrizia Cavalli è stata giovane e bella (sennò poi noialtri sul divano cambiamo canale, superficiali come siamo); e ricordarmi, in una vecchia intervista in cui dice che nel ’68 si sentiva in colpa a scrivere poesie perché sembrava una colpa non occuparsi di politica, di quello scambio tra Paolo Conte e Riccardo Del Turco: «Tu cos’hai fatto nel ’68?» «Io ho fatto “Luglio”, e tu?» «Io ho fatto “Azzurro”».
Quella accidentale è confermare che le poesie non vanno dette, non vanno recitate, non vanno lette, non vanno espresse vocalmente (ho finito i sinonimi). Puoi essere una delle più formidabili poetesse viventi (qualunque cosa significhi) e dire i tuoi versi, ma comunque sarai il bambino che sale sulla seggiola a dire la filastrocca di Natale. Puoi essere un’intellettuale con un controllo assoluto della lingua, ma eccoti trasformata in Brunello Robertetti che annuncia: ora diche un poèsia. Puoi essere una che chiunque prende sul serio, e diventi subito Fantozzi che la signorina Silvani fredda dicendo: ah, anche poeta.
«Ero un’ignorante assoluta, leggevo solo “Tex Willer”. Veramente, leggevo solo “Tex Willer”. Poi all’improvviso, non so perché, ho letto “Amleto”. Ho detto: ma accidenti, bello». In un mondo di pescivendole con ambizioni medio riflessive che ci ripetono allo sfinimento che loro fin da piccole leggevano tantissimo, convincendoci vieppiù che leggere non serva a niente, Patrizia Cavalli dice che lei leggeva solo fumetti (Tex Willer lo pronuncia «Tex Will»). «Non ero una bambinetta colta: ero una delinquente».
La Cavalli che racconta la Cavalli che, a Todi, si fa portare all’Agip e aspetta i camionisti cui chiedere «vuoi giocare a morra? Quanto ci giochi?» è la risposta alla domanda non fatta. «E lì vincevo, naturalmente, perché ero un genio della morra». Vale per la morra da piccola quel che varrà per il poker da grande, e cioè che «non mi piace il danaro meritato, mi piace il danaro vinto, regalato, avuto per sorte, così, per fortuna, ma io, l’idea del danaro guadagnato e sudato, mi fa orrore».
Della Cavalli trasferitasi a Roma è stupendo il racconto di due momenti della sua amicizia con Elsa Morante. Il primo quando la Cavalli, che la venerava da lettrice, la vuole conoscere – ma non chiede mai che le venga presentata perché «ero sempre superba» – e poi ci litiga subito, al primo pranzo, per quella distonia tra chi hai letto e chi è stata letta. «Lei non era più dentro l’umore del “Mondo salvato dai ragazzini”, aveva già superato, mentre io l’ultima cosa che avevo letto era quello, quindi ero già fuori fase» (solo chi ha avuto la sventura di tentare di frequentare nella vita gente di cui aveva frequentato i libri può capire quanta verità ci sia in questo frammento).
Il secondo è il momento in cui la Morante le chiede di leggere le sue poesie, perché lei è stata così sciocca da dirle che ne scriveva sebbene non ci si fosse mai impegnata («Scrivevo delle poesie orribili, proprio orrende, delle cose pazzesche, letterarie, non si capisce cos’erano»).
Quella le chiede di leggerle, e lei torna a casa, «mi son messa a guardare le poesie, ho detto no, non ero stupida, capisci, ero intelligente, per cui capivo che quel che avevo scritto era orribile, era letterario, falso, inesistente» (Patrizia Cavalli dice «letterario» come io dico «blu elettrico» e la gente normale «scorie nucleari»).
«Ogni ragionamento sopra la poesia risulta falso», scriveva la Ginzburg, e quindi qui non troverete considerazioni sulle poesie di Patrizia Cavalli, neppure ipotesi sul fatto che questo documentario esca a settembre perché, nella poesia preferita dalle card dell’Instagram, le sentinelle dell’estate sono maggio e settembre, «promessa e nostalgia». Esiste un pubblico delle card dell’Instagram che riesca a stare concentrato per un’ora e un quarto di documentario? Era più semplice chiedersi dei poeti viventi.
Comunque poi Cavalli evita Morante per mesi, finché non ha prodotto poesie degne, e quando gliele consegna e a lei piacciono non gliene frega granché come poeta, ma moltissimo come amica dell’esigentissima Morante, «non temevo più di essere espulsa».
Col poker, invece, finisce ovviamente che «ho perso più di quanto potessi permettermi», ma finisce anche che smette. Come smette lei le storie d’amore e di gioco, le ossessioni e i gusti: «Io c’ho un solo modo per smettere: il disgusto. Non posso smettere per buona volontà o per ragionamento. È più importante dell’amore, il disgusto». Dovrebbero farci una card dell’Instagram.