Too big to convictRomney l’eretico e la resa dei Repubblicani moderati al fanatismo Maga

Il senatore che sfidò Obama non si ricandiderà. Qualche anno fa quelli come lui erano la norma nel Gop, oggi sono un’anomalia e l’ortodossia trumpiana assume tratti da culto del capo

Trump durante un comizio in South Dakota
Trump durante un comizio in South Dakota (AP Photo/Toby Brusseau)

Tocca a una nuova generazione. Appunti per Mitch McConnell e l’America ottuagenaria, Paese per vecchi dove sono anziani anche i probabili sfidanti per la Casa Bianca, in un riedizione del 2020 (speriamo senza sommosse). In una Capitol Hill incanutita, di brizzolato il senatore Mitt Romney aveva giusto le basette. A settantasei anni, questa settimana ha annunciato che non si ricandiderà. Eletto nel 2018 in Utah, il mandato scade nel 2025. Era isolato tra i Repubblicani che hanno assecondato la mutazione genetica trumpiana o ne sono l’espressione, la sua uscita di scena assottiglierà ancora di più l’ala moderata, e quindi ragionevole, del Gop.

Ma non segna un cambio della guardia: non c’è nulla da custodire, nel partito di oggi l’anomalia è lui e l’ortodossia è il culto del capo.

Eppure, qualche anno fa, quelli come Romney erano la norma nel campo rosso del bipolarismo. È stato il volto dell’ultima fase “ordinaria” prima dell’uragano, anzi prima del tycoon. Nel 2008 ha corso alle primarie, quattro anni dopo le ha vinte. Alle presidenziali è stato sconfitto, ma con l’onore delle armi, da Barack Obama. È stato l’unico senatore repubblicano a votare per due volte a favore dell’impeachment di Donald Trump. La prima volta, nel 2020, è stato pure l’unico. La seconda, settimane dopo l’assalto al Congresso del 6 gennaio 2021, si sono uniti a lui altri sei eretici.

La terminologia non è casuale. La dinamica del consenso dell’ex presidente, ha notato l’Atlantic, ricorda quella di un leader religioso. I principali competitor di Trump, ha detto Romney, parlano tutti la sua lingua, che è quella del «Maga», cioè Make America Great Again, lo slogan per tutte le stagioni. Il governatore della Florida Ron DeSantis e Vivek Ramaswamy, qualsiasi sia il sottopancia più adatto al trentottenne, sono figli ideologici di The Donald. Lo sosterrebbero anche in caso di condanna ed ecco la òla di mani alzate al dibattito di Milwaukee. DeSantis riluttante; Ramaswamy subìto, da primo della classe, e ultimo ad abbassarla.


Sulla Cnn un ospite ha paragonato la popolarità del milionario a quella del guru di una setta. Lui ha denunciato – invano – il network per diffamazione: «cult leader», negli Stati Uniti, è un’etichetta corrosiva. Però i suoi seguaci, dice un sondaggio della Cbs, si fidano delle “informazioni” disseminate dai profili social del loro oracolo più dei telegiornali, anche di quelli Fox, ma pure più della loro famiglia. Secondo l’Atlantic, è (anche) una questione anagrafica: metà del voto over 65 nel 2020 è andato a Trump, mentre la demografica dai diciotto ai trent’anni ha scelto in blocco i Dem.

In una riga: basta aspettare. Il trascorrere del tempo, a differenza degli scrutini, non può essere fermato con la forza. Il leader non è eterno. Sì, ma fino ad allora? Anche perché i guai legali e le foto-segnaletiche con la faccia da duro gli stanno cucendo addosso un’aura di invincibilità che ha quei crismi lì, meccaniche da fanatismo, nel suo movimento quanto tra i progressisti, con il prime time delle tv monopolizzato dal “martirio” giudiziario in diretta. Così, riflette il New Yorker, il «too big to fail» (spoiler: il fail poi c’è stato) della Grande recessione ha un nuovo corollario: «too big to convict». Troppo grande per essere condannato.

A inizio mese il Wall Street Journal certificava come, per gli elettori repubblicani, non esistessero di fatto alternative. Trump risultava la «top choice» del cinquantanove per cento di loro alle primarie. Undici punti più di aprile. Se il portale specializzato FiveThirtyEight registra qualche lieve, lievissimo scricchiolio nel vantaggio monolitico, conclude che «l’opinione pubblica nei confronti di Trump non è cambiata in modo significativo in questi mesi, anche dopo che è stato accusato di quasi cento reati in quattro diverse incriminazioni». Le udienze hanno imbalsamato la base di fronte alla “persecuzione” del candidato, si lamenta una restrizione della stessa democrazia che il suddetto candidato ha cercato di divellere.

Il senatore americano Mitt Romney
Mitt Romney (AP Photo/Rick Bowmer)

Così Romney è l’apostata, punto terminale di un «conservatorismo tradizionale» da riserva indiana. Se il GoP ha sterzato nella direzione «populista», è convinto il senatore, può fare il percorso inverso. «Ai giovani stanno a cuore il cambiamento climatico e cose che ai repubblicani Maga non interessano». Nel frattempo, il movimento fa danni e potrà farne ancora in futuro. Mette in dubbio gli aiuti militari all’Ucraina nelle ore in cui al cosmodromo di Vostochny due dittatori, Vladimir Putin e Kim Jong Un, barattano armi. Una minaccia alla sicurezza nazionale, non solo statunitense, ma del mondo.

«Una vittoria di Putin sarebbe una catastrofe per l’Occidente e per la leadership americana, e non credo sarebbe un esito che potrebbe essere facilmente gestito da un presidente americano, tanto meno da quello del Make America Great Again», ha scritto Boris Johnson sullo Spectator dopo un altro viaggio a Kyjiv. Negli anni incendiari della Brexit lo definivano il «clone europeo» di Trump, la guerra li ha definitivamente separati: la differenza è che ad avere più chances di riconquistare il potere è quello sul crinale sbagliato della Storia.

L’Atlantic ha pubblicato un estratto della biografia di Romney. Nelle pagine si mostra lucido su quale sia il costo della vittoria per il partito in cui ha creduto. Indipendente nel vero senso della parola, sa che seguirne la linea significa non accorgersi di quanto essa si sposti sempre un po’ più in là. Nel 2017, esordio disastroso della presidenza Trump, Romney era indeciso se tornare alla politica attiva. Allora aveva elencato i pro e i contro di una candidatura al Senato sul suo iPad. In cima alla lista è rimasta una citazione di Yeats che recita circa così: «I migliori mancano di ogni convinzione, mentre i peggiori sono pieni di intensità appassionata».

Anche oggi hanno vinto i peggiori.

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