L’invidia della pèscaPillon, lo spot dell’Esselunga e l’isteria del ceto medio divorzista

Volevo parlarvi di Martin Scorsese, ma ho visto gente infuriarsi per la trama di uno spot di un supermercato (e non per la dizione sbagliata dell’attrice che interpreta la mamma)

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Quest’estate più o meno la metà delle coppie che conosco si sono separate. Se fosse statistica invece che aneddotica, ci sarebbe già un allarme famiglie in disfacimento nei nostri televisori; invece, c’è solo uno spot dell’Esselunga.

Quest’estate l’ho passata a ridere in faccia a quel luogo comune che è «i bambini sono più felici se i genitori sono separati e sereni», ripetuto come fosse il rosario da gente che ha appena finito di dire «tua madre è una stronza» o «tuo padre è un puttaniere» a piccini finalmente sereni in transito tra una casa genitoriale e l’altra. 

La conversazione è sempre finita con «certo, non diremmo mai in pubblico che i bambini preferiscono che i genitori stiano comunque insieme, mica vogliamo passare per retrogradi». Mica siamo l’Esselunga, avremmo dovuto dire. 

Le separazioni dell’estate 2023 tra i miei conoscenti hanno caratteri diversi (alcuni erano primi matrimoni, altri erano già al secondo giro); caratteri sovrapponibili (tutti hanno degli screenshot dell’ex da farti vedere: l’interpretazione dello screenshot speravamo di averla scansata non avendo vent’anni in questo secolo, ma poi sono arrivate le separazioni senili); e tutte sono foriere di ciò di cui da sempre sono foriere le separazioni: la grande domanda «ma come ho fatto a starci insieme finora?».

Forse anche gli amici di Pillon si sono lasciati, e anche lui come me non riesce a essere consolatorio: a ogni «ma come ho fatto», io non riesco a trattenermi e confesso che io me lo chiedo ancora rispetto a tizi che mi sono scopata una volta trent’anni fa, figuriamoci se penso che tu ci possa mettere meno di centodue anni a smettere di pentirti del tizio che hai sposato.

Forse Pillon era esasperato dagli screenshot, dai «ma secondo te cosa intendeva quando mi ha detto che», allorché, due settimane fa, ha spiegato che «il divorzio facile è la prima ragione che tiene i giovani lontani dal matrimonio» e che «lo stato dovrebbe prevedere, per chi lo vuole, una forma di matrimonio indissolubile».

Io l’avevo sentito fratello, Simone Pillon, che all’ennesimo separato che si lamenta perché l’ex gli chiede troppi soldi, all’ennesima divorzianda che gli dice non sai, quello dice ai bambini che sono una zoccola, all’ennesimo guarda qui gli ho trovato delle foto di tette sul telefono, all’ennesima banalità di coppia spacciata per insormontabile tragedia, io l’avevo capito, Pillon, che sbottava auspicando l’abolizione delle separazioni, o almeno una multa che poi lo stato girerà a noialtri amici di famiglia costretti a sorbirci le recriminazioni dei separandi.

Quel che non avevo capito era che Pillon costituiva una prova tecnica di trasmissione. Cosa succede, si era domandato il grande algoritmo che ci governa, se usiamo la separazione per verificare ciò che già sappiamo, ovvero che non esiste più il gusto, il giudizio contestuale, il merito delle cose, ma esiste solo una gigantesca sindrome paranoide applicabile a tutto?

Poiché Pillon è un politico di destra col farfallino che nessuno di noi – noi del cinquanta per cento di separazioni in un’estate sola, noi del ceto medio divorzista, noi che abbiamo molto tempo libero e lo usiamo per gli screenshot – ha mai votato, le reazioni alla sua uscita erano state tutto sommato pacate.

Ma l’Esselunga. L’Esselunga non si deve permettere. Con tutto quel che abbiamo speso in focaccine. Con tutti i punti fragola che abbiamo raccolto. Con tutta la fedeltà che le abbiamo riservato, che se fossimo monogami con le persone come lo siamo con un supermercato allora altro che indissolubilità. E lei, l’Esselunga, ci tradisce così.

Quando, lunedì sera sul tardi, ho ripreso il telefono mollato ore prima, avevo i social pieni di «ah, quindi l’Esselunga è contro il divorzio». Ohibò, cosa sarà mai successo: ti chiedono di controfirmare i desideri di Pillon prima di passare la Fìdaty sul lettore? Macché: era andato in onda uno spot.

Lo spot è fatto così. Dentro al supermercato, una madre cerca la figlia. È uno spot del supermercato, quindi è improbabile che finirà con la bambina rapita da un bruto: il messaggio è forse che i supermercati sono luoghi sicuri? Non so, andiamo avanti a guardare.

Finalmente la trova: è vicina alle pesche (ma siamo a fine settembre: vi era avanzato lo spot girato per l’estate?). La madre pronuncia «pésca», sembra un dettaglio da niente ma non lo è: il messaggio dello spot è forse che bisogna inserire ore di dizione nei programmi scolastici? Non so, proseguiamo.

La bambina è evidentemente una di quelle che da grandi si scriveranno nelle bio social «neurodivergente»: la madre le chiede come le sia venuto in mente di scappare, se voglia una pesca, ma lei non risponde mai, non risponde niente, fissa la pesca forse interrogandosi sulla stagionalità e il chilometro zero. Il messaggio dello spot è dunque che l’Esselunga non è mica Farinetti? Che il mutismo selettivo si cura come suggerisce Checco Zalone? Non so, ma intanto siamo arrivati alla cassa.

Dove la pesca passa sul rullo senza che nessuno le abbia appiccicato su il codice a barre della bilancia, e qui la sospensione dell’incredulità se ne va a meretrici (cioè: a mogli divorziate): dov’è lo spot che tutti attendiamo, quello in cui la cassiera cazzia madre e figlia ed entrambe si mettono a piangere? Il messaggio dello spot è forse che l’Esselunga ha deciso di fare i prezzi a occhio?

In macchina la muta selettiva continua a tacere, la madre dice quelle cose stucchevoli che dicono i genitori di questo secolo terrorizzati di rovinare i figli non trattandoli abbastanza da geni, poi arrivano a casa ed entriamo nel vivo del plot che ha scandalizzato gli osservatori social: il padre separato va a prendere la muta selettiva.

In macchina con lui, ella infine favella: gli dà la pesca, e gli dice che gliela manda la mamma. E lui dice «mi piacciono le pèsche», con la «e» aperta, e dice che la chiamerà, la mamma, per ringraziarla, e a questo punto ci sono due interpretazioni possibili del messaggio dello spot.

La mia è che il matrimonio tra una che pronuncia il frutto come se fosse l’attività del pescare e uno che invece sa quali vocali aprire e quali chiudere non può durare e neppure può finire senza rancori, e che se davvero lui la chiamerà per ringraziarla lei gli chiederà indietro i soldi della pesca (che però non potrà dimostrare d’aver pagato, non avendo il codice a barre).

Quella del collettivo isterico di Twitter è che l’Esselunga ci stia dicendo che il divorzio è sempre colpa delle donne (eh?), che siano degli orridi reazionari che colpevolizzano la madre (eh??), che sia uno schifo, una vergogna, una regressione agli anni Cinquanta, un attentato ai diritti e una sottovalutazione dei problemi miei di donna.

Lo spot è brutto, per carità, ma non ricordo spot belli di supermercati. È più lunare di quello in cui il marito si alzava di notte per andare a controllare le merci dentro alla Conad? Non mi pare, ecco. È tanto diverso da quello della Barilla in cui il papà all’estero trovava il maccherone che gli aveva messo in tasca il figlio? Macché, però quello era nel Novecento: quando uno spot era solo uno spot, e non un pretesto per l’isteria collettiva.

Mi pare che il delirio paranoide proietti su quella pesca e quella muta e quei due dalla dizione incompatibile tutto quel che vediamo nelle separazioni intorno a noi, e quel che temiamo delle (nella migliore delle ipotesi: imminenti) nostre.

Qualche ora prima di vedere gente isterichirsi per uno spot di supermercato, avevo letto un’intervista strepitosa a Martin Scorsese, che è quel di cui avrei voluto parlare oggi qui, ma ancora una volta la stronzata del giorno ha vinto su una cosa bella. Però c’è un dettaglio, tra le cose che dice quel gran figo di Scorsese all’edizione americana di GQ, che forse c’entra con la pesca.

Racconta Martin che non sapeva come avrebbe fatto a controllare il montaggio dei suo film nuovo, che dura tre ore e venti: ha una famiglia, non ce le ha tre ore e venti in cui lo lascino tutti in pace. Ho annuito fortissimo, perché la cosa che chiedo più spesso alle amiche non ancora separate è: come fai a concentrarti?

Ho amiche che, quando vanno fuori città per lavoro, poi mi descrivono per interi minuti con sollucchero e incredulità la beatitudine di avere il silenzio tutto per sé, il letto tutto per sé, l’attenzione tutta per sé. Cerco di non rispondere «ah, la mia vita quotidiana da trent’anni, mi chiedevo giusto quando avresti scoperto come si sta senza rotture di coglioni», perché francamente sarebbe bullismo.

Però è chiaro che il punto che viene fuori con le separazioni non è «come ho fatto a stare con questo specifico cretino», ma: come ho fatto a mettermi un estraneo in casa? Come ho fatto a cedere al ricatto dei metri quadri condivisi, alla truffa della solitudine come problema e non come lusso?

Il problema delle mie amiche, e forse persino di Martin Scorsese, è l’invidia della pesca. Come si fa a non invidiare quel padre che domani la figlia la riporta alla tizia che se la sorbisce tutti i giorni, e avrà la sua casa per sé, la sua vita per sé, la sua pesca per sé? Come si fa a pensare che non avere estranei dentro casa non sia una vittoria? Ma, soprattutto, come abbiamo fatto a ridurci così annoiati e famelici d’indignazione da attaccarci pure al pretesto dello spot dell’Esselunga?

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