Strasburgo. Dicono che i sociologi siano quelli che, in un club di spogliarelli, guardano i clienti. Se è vero, allora per i giornalisti vale la stessa cosa: in un’aula dove si parla di futuro, di politica, di guerra, di avvenire dei popoli e delle nazioni, i giornalisti sono quelli che guardano le sopracciglia che si alzano, auscultano i colpi di tosse, e misurano le esitazioni nel tono della voce. E durante il discorso sullo Stato dell’Unione europea, le vere notizie, si nascondevano lì. Tra sopracciglia e colpi di tosse. In aula, mentre la presidente parlava, tutti si chiedevano (e probabilmente si chiederanno fino alla prossima estate): cosa vuole fare Ursula von der Leyen da grande? Così, mentre in aula la Presidente parlava del destino dell’Europa, l’aula e la sala stampa non si preoccupavano di altro che del personalissimo destino della Presidente: «Presidente, ma… l’anno prossimo?» L’anno prossimo non si sa.
Ursula von der Leyen, che in quattro anni il mestiere lo ha imparato gran bene, e che non è più la spaurita candidata mandata alla sbaraglio dal Consiglio di fronte a un Parlamento che non la voleva, ha parlato per quasi un’ora senza offrire nemmeno l’ombra di un appiglio o di un indizio ai cercatori di complotti e trame. Ha tenuto per sé il segreto di quali sono i suoi progetti. E soprattutto si è mossa con la cautela di chi sa che quest’aula non l’ha mai particolarmente amata e l’ha eletta con uno scarto men che minimo (nove voti appena), facendola sostenere da una maggioranza compatta, ma risicata.
In questo modo, se è vero come è vero che Ursula von der Leyen era poco o punto infastidita dalla latitanza dell’ala destra dell’emiciclo, i cui deputati sono rimasti vistosamente assenti per farle uno sfregio, è anche vero che sa di doversi guardare dalla freddezza che arriva dall’ala sinistra, quella che sino a ora le ha consentito di governare, peraltro con una certa incisività, l’Unione europea.
Il punto è che Ursula von der Leyen è un’esponente del Ppe. Ma il Ppe non la sostiene in modo compatto. Diciamo che ci sono due metà. Quella che tende più a destra (e che ha il suo leader in Manfred Weber) avrebbe fatto volentieri a meno della sua presidenza e, sinceramente, spera che questa non abbia nessuna replica.
L’altra, quella che tende più a sinistra (e che non si è ancora ripresa dall’uscita di scena di Angela Merkel), è sì nel fanclub di Ursula, ma da sola, evidentemente non ha le forze per reggerne l’azione. Serviva e serve (e soprattutto come potrebbe servire domani) una maggioranza ampia: la maggioranza Ursula appunto, quella con liberali e socialdemocratici.
Il problema però è che socialdemocratici e liberali sono in una fase di grande freddezza nei confronti della presidente che hanno sin qui sostenuto senza esitazione. Lo sono perché le elezioni si avvicinano per tutti, e servono politiche che si vedano, sentano, tocchino. E proprio ora Ursula von der Leyen sembra aver tirato il freno a mano.
A convincere pochissimo socialisti e liberali sono soprattutto due dossier: uno è la nomina del nuovo commissario al Clima Wopke Hoekstra, popolare (tendenza destra) destinato a prendere il posto del pasdaran socialista Frans Timmermans. Affidare una partita così cruciale (peraltro l’unica davvero spendibile in campagna elettorale) all’ex ministro delle finanze olandese è cosa che convince poco la sinistra della maggioranza, dal momento che Hoekstra non ha nessuna esperienza in fatto di clima e di ambiente.
L’altro tema sul quale la maggioranza scricchiola è la politica di gestione dell’immigrazione: secondo UVdL (la sigla con cui è conosciuta nella «bolla» di Bruxelles, ndr) il cui modello della gestione delle crisi dei migranti per il futuro dovrà essere quello degli accordi sulla Tunisia. Secondo liberali e socialisti, invece, gli accordi con i tunisini sono pessimi e non fanno altro che spostare il problema, affidando, per l’ennesima volta, la gestione del tema a governi opachi e scarsamente democratici.
E quindi, forse, la ragione per cui Ursula von der Leyen non ha nemmeno velatamente lasciato intuire nulla circa la sua intenzione di tornare alla guida dell’Ue, è che forse non lo sa neppure lei.
O meglio: forse, in cuor suo sa se vuole o no. Ma non sa se ce ne saranno le condizioni e se, pur in uno scenario in cui abbia i numeri, questi possano di nuovo tradursi in una vera maggioranza. Perché sa che, senza socialisti e liberali, con il suo nome non può andare da nessuna parte. E lo sa, perché, anche lei, come i giornalisti, guarda le sopracciglia che si alzano e i colpi di tosse.