Ursula von der Leyen si è guardata bene dal dirlo, ma il discorso sullo Stato dell’Unione che ha pronunciato di fronte al Parlamento europeo di Strasburgo, l’ultimo del suo mandato, potrebbe non essere l’ultimo della sua vita. Una riconferma alla guida della Commissione europea è fra le ipotesi più probabili per il quinquennio 2024-2029, anche se al momento l’idea di una candidatura non è mai stata confermata né smentita dalla diretta interessata, che anzi a domanda diretta evita amabilmente di rispondere.
Ma sicuramente avrà preso nota delle reazioni al suo discorso dei gruppi politici che compongono l’Eurocamera, e che saranno chiamati ad approvare il nuovo (o la nuova) presidente dell’esecutivo comunitario, designato dagli Stati membri dopo le elezioni europee di giugno 2024.
Weber non affonda
La più attesa, quasi quanto il discorso stesso, era quella di Manfred Weber, il presidente del Partito popolare europeo: cioè la famiglia politica di von der Leyen che negli ultimi tempi è sembrata recalcitrante verso la sua agenda politica, soprattutto sui temi ambientali.
Ma Weber ha mischiato le carte, rimarcando il sostegno del suo gruppo a trentadue dei trentaquattro file legislativi del Green Deal, e glissando sull’opposizione feroce alla legge sul ripristino della natura o le spaccature sul divieto di vendita per i veicoli con motore a combustione dal 2035.
Il presidente del Ppe apprezza le promesse di von der Leyen sulla riduzione delle procedure amministrative per le piccole e medie imprese, l’impegno a concludere nuovi accordi commerciali con Australia, India e Paesi latinoamericani, e soprattutto l’annuncio di un’indagine contro i sussidi statali cinesi ai produttori di auto elettriche.
L’idea lanciata da Weber di un commissario alla Difesa per una maggiore attenzione a questo aspetto nella prossima Commissione non stride necessariamente con l’agenda von der Leyen, presidente sotto la quale è stata finanziata per la prima volta nella storia comunitaria la produzione di armi.
Nessun contrasto esplicito, dunque, e anzi un’inaspettato omaggio alla cosiddetta «maggioranza Ursula», formata dai popolari insieme a socialisti e liberali. «Il motore politico dell’Europa funziona», ha detto Weber: non poco per un leader spesso accusato dai suoi rivali di cercare maggioranze alternative e alleanze con i partiti di estrema destra.
Forse a cementificare la coalizione di governo dell’Ue è più l’aritmetica che la sintonia politica fra i gruppi parlamentari. Secondo gli ultimi sondaggi, un ipotetico bis di von der Leyen a Palazzo Baerlaymont, ma più in generale qualunque presidente della Commissione, non potrebbe fare a meno dei voti delle tre principali famiglie politiche europee.
Maggioranza Ursula: missione possibile
Il sostegno di Ppe, Socialisti e democratici e Renew Europe dovrebbe invece bastare per raggiungere la maggioranza assoluta dei deputati necessaria alla rielezione. Ma da socialisti e liberali non sono arrivate solo carezze a Ursula von der Leyen.
S&D ha attaccato la presidente sulla politica migratoria, in particolare sull’ultimo accordo di cooperazione firmato con la Tunisia: «I soldi dei contribuenti europei non possono finire nelle casse di governi che violano i diritti umani fondamentali», ha detto nel suo intervento la presidente Iratxe García Pérez, riferendosi senza nominarlo all’esecutivo di Kaïs Saïed.
La socialista spagnola ha pure insistito sull’inclusione della violenza di genere nella lista dei «reati europei» e sui cavalli di battaglia della giustizia sociale e della riforma della tassazione: temi non alieni alle aspirazioni di von der Leyen.
I centristi invece avrebbero voluto una menzione più coraggiosa del rispetto dello Stato di diritto in Polonia e Ungheria, mentre i due Paesi non sono stati mai nominati nel discorso.
Da Renew arriva anche un appello a modificare le regole comunitarie. «L’unanimità è un veleno: basta pensare che il nostro supporto all’Ucraina oggi dipende da Viktor Orbán», le parole del leader del gruppo Stéphane Séjourné, mentre un altro peso massimo dei liberali, il belga Guy Verhofstadt, mette le cose in chiaro: nessuna allargamento dell’Ue senza una riforma dei trattati comunitari, che modifichi il processo decisionale. «Ha ragione il presidente Zelensky quando dice che la controffensiva ucraina è velocissima se paragonata ai tempi burocratici con cui l’Ue adotta le sanzioni contro la Russia».
Tutto sommato, una visione non troppo distante da quella della presidente della Commissione, che per ruolo istituzionale non può esporsi negli stessi termini, ma che ha aperto in modo chiaro alla possibilità di modificare i trattati, pur svincolandola dall’adesione di nuovi Paesi all’Unione.
Parole di apprezzamento per l’operato di von der Leyen sono arrivate pure dal co-presidente del gruppo Verdi/Alleanza libera per l’Europa, il belga Philippe Lamberts, soddisfatto per la priorità accordata alla lotta al cambiamento climatico. «Contro tutte le previsioni, il Green Deal ha resistito alla pandemia e alla guerra che hanno colpito l’Europa. Lo dobbiamo soprattutto a Lei, presidente».
Certo gli appunti non sono mancati, dalla richiesta di regolare la speculazione sul mercato degli affitti alla critica per una politica da «Fortezza Europa» che sovvenziona dittatori e Stati falliti per tenere le persone migranti lontane dall’Ue. Ma in generale i Verdi, che nel prossimo Parlamento rischiano un ruolo più marginale, potrebbero fare da stampella a una’eventuale «maggioranza Ursula 2.0».
Gli attacchi dall’estrema destra
Chi sicuramente non sosterrà von der Leyen è il gruppo Identità e democrazia, con il suo presidente Marco Zanni, della Lega, che reputa il discorso un «manifesto elettorale». Critiche sul Green Deal, sulla gestione dell’immigrazione, e persino sull’indagine contro i sussidi cinesi alle auto elettriche, che teoricamente dovrebbe essere apprezzata a destra. «Davvero oggi l’Ue ha ancora bisogno di lanciare un’investigazione sui sussidi, quando è chiaro che Pechino fa concorrenza sleale? Ci aspettiamo che Bruxelles faccia quel che deve per proteggere le imprese, imporre dazi a chi non rispetta le regole».
Un fuoco di fila è partito anche dai banchi dei Conservatori e riformisti europei, la famiglia politica di Fratelli d’Italia. A parlare nel round dei presidenti di gruppo non è stato il meloniano Nicola Procaccini, ma l’altro co-presidente, il polacco Ryszard Legutko, che ha aperto citando William Shakespeare («C’è del marcio nello Stato dell’Unione») e proseguito incalzando von der Leyen sul Green Deal, il Next GenerationEu, le presunte interferenze nelle dinamiche politiche nazionali e perfino iniziative mai concretizzate.
«La sua Commissione sarà ricordata come quella che stava lavorando per regolare il linguaggio, suggerendoci di abolire la parola “Natale”». Difficilmente si scambieranno gli auguri, il prossimo 25 dicembre.