Il 24 settembre a Banjska, in Kosovo, un attacco terroristico a opera di una formazione paramilitare serba composta da una trentina di persone armate ha causato la morte di un poliziotto kosovaro e di tre attentatori. Da allora i rapporti tra i due Paesi si sono completamente interrotti e il premier kosovaro Albin Kurti rifiuta di sedersi al tavolo con il presidente serbo Aleksandar Vučić finché l’Unione europea non prenderà provvedimenti politici ed economici. Secondo Pristina, infatti, è impossibile che Belgrado non sapesse dell’attacco e, anzi, il governo serbo viene accusato di aver avuto un ruolo attivo nella vicenda.
Arsenale serbo
Negli ultimi giorni, grazie ad un’inchiesta pubblicata da Balkan insight, stanno emergendo alcune novità che sollevano molti dubbi sul reale grado di coinvolgimento della Serbia. Nel luogo del conflitto a fuoco è stato ritrovato un vero e proprio arsenale – mostrato dalla polizia kosovara dopo l’attentato – tra fucili, mine antiuomo Mrud, colpi di mortaio M60, lanciarazzi anticarro Zolja, un lanciagranate automatico M93 e molte munizioni, tutti di fabbricazione serba.
Secondo quanto emerge dall’inchiesta, i proiettili sequestrati agli attentatori sarebbero stati prodotti in Serbia solo l’anno scorso, mentre alcuni colpi di mortaio e lanciagranate sarebbero passati attraverso i centri di manutenzione statali nel 2018 e nel 2021.
Non è chiaro come questo arsenale sia finito nelle mani del gruppo terroristico. Ammesso che alcune delle armi pesanti potrebbero essere passate per un acquirente privato per poi essere state rivendute, sono le munizioni dei fucili d’assalto a lasciare i maggiori dubbi. I proiettili, infatti, corrispondono a quelli realizzati nel 2022 dalla fabbrica Belom che fa parte dell’industria statale bellica della Serbia.
Con una produzione così recente dovrebbe essere piuttosto semplice risalire al percorso delle munizioni e rintracciarne gli acquirenti. Su questo però Belgrado tace. Come tace sui lanciarazzi anticarro Zolja che sono stati riparati nel centro di Kragujevac nel 2021, appena due anni fa. Pristina, giustamente, esige che siano svolte indagini approfondite e chiama in causa Bruxelles.
L’alleato di Vučić
Il capo della milizia terroristica che ha guidato l’assalto è Milan Radoičić, arrestato qualche giorno fa e poi rilasciato dopo essersi assunto la piena responsabilità dell’accaduto. L’arresto è sembrato più che altro un’operazione di facciata visto che non è accusato né di omicidio né di terrorismo.
Ricco uomo d’affari e vicepresidente di Lista serba (un partito che si rivolge alla minoranza serba in Kosovo e che è stato appoggiato apertamente da Belgrado e dal presidente Vučić), Radoičić è sospettato di associazione a delinquere, possesso illegale di armi ed esplosivi e gravi atti contro la sicurezza pubblica.
Belgrado ha negato qualsiasi coinvolgimento del governo. Pochi giorni dopo l’attacco, però, Vučić ha iniziato ad ammassare truppe verso il confine e per qualche giorno si è temuto che potesse avere inizio un nuovo conflitto.
La risposta della Nato non si è fatta attendere e il contingente Kfor (Kosovo Force) è stato subito rafforzato con l’arrivo di soldati tedeschi, britannici e rumeni. Un’azione deterrente che ha spinto il presidente serbo a darsi una calmata. Almeno per il momento.
In questo contesto, ovviamente, Mosca ha preso le parti della Serbia che, pur provando timidamente a prendere le distanze da Putin con piccoli passi verso Bruxelles (senza però mai adottare formalmente le sanzioni), resta legata a doppio filo alla Russia. Il Cremlino, nel frattempo, continua a sfruttare le tensioni in altri Paesi per distogliere l’attenzione dall’Ucraina.
Fragilità europea
L’Unione europea prova da tempo a mediare nel tentativo di normalizzare i rapporti nella regione. Il momento di maggiore ottimismo lo si è avuto a marzo dopo il fragile accordo di Ohrid che non è stato mai sottoscritto dalle parti. Da allora le relazioni sono peggiorate portando a frequenti momenti di tensione nell’area a maggioranza serba.
Nonostante i rapporti sempre più tesi l’Ue ha continuato a cercare una soluzione diplomatica anche se negli ultimi tempi non è sembrata un arbitro del tutto equidistante, tendendo a sbilanciarsi verso la Serbia. L’attentato di Banjska è arrivato pochi giorni dopo l’ultimo round di colloqui svoltosi a Bruxelles, chiaro segno che il tentativo di mediazione è fallito.
Il 5 e 6 ottobre a Granada si è tenuto l’incontro informale dei ventisette capi di Stato e di governo dell’Ue e la riunione della Comunità politica europea che comprende quarantaquattro paesi, tra cui Serbia e Kosovo. In quell’occasione la presidente kosovara Osmani ha rifiutato categoricamente di incontrare il presidente serbo Aleksandar Vučić.
Secondo Politico, Osmani ha chiesto che la Serbia fosse sanzionata per l’«atto orrendo che ha commesso non solo contro il Kosovo, ma contro la pace, la stabilità e la sicurezza in tutto il continente europeo», aggiungendo che «sostenere un aggressore per il quale ci sono prove chiare non aiuterà la pace e la stabilità». Ma l’Unione, bloccata dai veti del fronte nazionalista guidato da Viktor Orbán, è riuscita ancora una volta a non decidere.
Un’occasione persa che dimostra nuovamente la fragilità in politica estera dell’Ue in un’area su cui Bruxelles avrebbe voluto e dovuto incidere di più. E non stupisce in questo senso la dichiarazione della presidente kosovara Osmani che ha ribadito la sua gratitudine nei confronti degli Stati Uniti.
Nonostante gli sforzi di Bruxelles, agli occhi dei leader della regione è Washington l’interlocutore in grado di garantire un percorso pacifico. Ancora una volta, sulle vicende internazionali le contraddizioni interne e il voto all’unanimità hanno relegato l’Ue a un ruolo secondario invece che a quello di potenza geopolitica indicato da Ursula Von der Leyen nel suo discorso d’insediamento.