Secondo il commissario europeo al Mercato interno e all’Industria Thierry Breton, il passaggio all’auto elettrica sarà la più grande trasformazione industriale che l’Ue dovrà affrontare nei prossimi anni, tenuto anche conto dei tempi stretti, con lo stop alla vendita di auto nuove a diesel e benzina previsto nel 2035. Una trasformazione che necessita di essere governata, soprattutto sul fronte del lavoro. Perché la transizione all’elettrico comporterà, secondo Breton, la distruzione di 600mila posti di lavoro per l’intera Ue lungo tutta la filiera. Ma, se sarà ben accompagnata, non sarà una partita con un risultato negativo: altrettanti posti saranno creati e nuove professionalità saranno richieste sul mercato. Basta prepararsi.
Secondo l’ultima ricerca della Rome Business School, la transizione elettrica del settore automotive in Italia taglierà sì posti di lavoro, ma ne creerà ancora di più: si stimano circa 296.800 occupati nel settore automobilistico nel 2030, con un aumento del +6 per cento rispetto ai 280mila del 2022.
«In Italia stiamo cercando di recuperare il ritardo accumulato sia a livello di capacità produttiva sia a livello di competitività verso gli altri Paesi», spiega Gerardo Gorrasi, National Industry Leader of Mobility di The Adecco Group Italia. «In Europa al momento sono molto forti la Francia e la Germania, ma anche la Spagna e i Paesi dell’Est. La Cina è diventata numero uno sia a livello di produzione che di mercato di auto elettriche. E ovviamente anche gli Stati Uniti guidano questo mercato».
Il nostro Paese rincorre la trasformazione green dell’automotive. Ma questa corsa necessita di alcuni aggiustamenti. A partire dalla filiera della componentistica delle auto. «Le aziende che verranno impattate sono circa 2.200», spiega Gorrasi. «Le nuove componenti necessarie per la produzione di auto “pulite” sono decisamente meno rispetto a quelle necessarie per le auto a motore endotermico. Quindi da un lato ci sarà bisogno di implementare nuove competenze, in ottica connettività – intelligenza artificiale, Internet of Things – , cybersecurity e sviluppo dell’Industry 4.0 e 5.0. Dall’altra parte, però, verrà richiesta anche meno manodopera».
La debolezza italiana, rispetto ai competitor globali, risiede principalmente nella dimensione medio-piccola di queste imprese. «Il tema, oggi, quindi è capire come gestire la transizione nel miglior modo possibile», prosegue Gorrasi. Il momento storico, certo, non aiuta, tra la carenza di microchip, l’aumento dei costi energetici e gli effetti negativi dei conflitti in corso. Ma le aziende si stanno attrezzando. In primis sul fronte della valutazione interna delle risorse a disposizione, in modo da capire dove e come operare per riqualificare le competenze in linea con la trasformazione in atto. Una volta mappate le competenze interne, laddove le skill ritenute indispensabili per lo sviluppo dei nuovi prodotti e processi non siano già presenti in azienda o non siano ulteriormente integrabili con azioni di riqualificazione, diventa necessario acquisirle dall’esterno.
«Il tema fondamentale è quindi legato alla formazione», dice Gorrasi, «sia in termini di reskilling che di upskilling. Andando a implementare le competenze anche con la creazione di Academy ad hoc proprio per colmare il gap esistente». E guardando al futuro, «serve investire negli Its, perché preparino le giuste figure in linea con quanto sta accadendo nell’industria, così come in percorsi strutturati di apprendistato per investire sullo sviluppo reale delle competenze».
Tra le skill più richieste dal settore, ci sono quelle legate alla gestione dei dati, dal data analyst/data scientist al data architect, dal data engineer al data base manager. Ma ci sono anche tutte le figure legate alla sicurezza informatica, come il security engineer. «Vuol dire guardare al mercato del lavoro tech, al quale queste aziende fino a pochi anni fa si rivolgevano solo in modo sporadico», dice Gorrasi. «Oggi invece devono attingere da lì per poter attrarre i migliori talenti e cercare di gestire un’evoluzione di prodotto necessaria».
E se non basta attirare in azienda competenze e professionalità, si assiste anche a joint venture con imprese o startup tech, ma anche a vere e proprie fusioni o acquisizioni di aziende che stanno sviluppando specifiche tecnologie.
Eppure, è molto probabile che queste trasformazioni aziendali comportino anche esuberi e riduzione di posti di lavoro. Professionalità che, se ben accompagnate, potranno essere ricollocate in altri settori. «È un tema anche sociale che dovrà essere gestito: si dovrà capire, in termini di riqualificazione, quale tipo di sbocchi potranno avere queste persone sui singoli territori, eventualmente anche in settori diversi rispetto a quello originale», spiega Gorrasi. «Bisogna agire a livello territoriale, partendo dall’employability di ciascuno, per capire quali possano essere i profili maggiormente richiesti al di fuori del settore automotive e quali azioni debbano essere realizzate per andare a riqualificare queste risorse, accompagnandole verso nuove opportunità di lavoro».
Un processo già in atto in alcune località italiane, dalla Basilicata alla Puglia, dal Piemonte all’Emilia Romagna, laddove esistono importanti distretti dell’automotive in cui sono impiegate migliaia di persone. Il punto, continua Gorrasi, «è che sarebbe necessaria un’azione organica e strutturata a livello governativo in grado di creare facilitazioni anche per le piccole e medie imprese, perché ad esempio possano accedere agli interventi formativi necessari per allinearsi alla transizione verso la mobilità green».
Realtà come il Gruppo Adecco possono fornire un importante contributo, agendo sia sul fronte della riqualificazione, attraverso l’organizzazione di percorsi formativi in grado di traghettare le risorse verso l’elettrico e facendo da ponte tra la scuola e le aziende, che del ricollocamento professionale.
«Serve una presa di coscienza forte», dice Gorrasi. «Bisogna mettere intorno a un tavolo tutti quelli che sono gli attori coinvolti o che potranno essere coinvolti nel prossimo futuro. In tal senso, realtà come il nostro Gruppo possono svolgere un importante ruolo di raccordo tra i diversi attori». Altrimenti, il pericolo è che l’industria dell’auto italiana perda il treno di una trasformazione definita epocale per il settore.