Nelle sedi di Spada Partners sono ospitate settanta delle duecentocinquanta opere della grande raccolta d’arte contemporanea di Roberto Spada. In questa collezione, nata circa vent’anni fa, il ruolo dell’immagine prevale sul media ed è la vera determinante per l’acquisizione dell’opera: se le fotografie fanno da padrone, stupiscono le poche – ma importanti e “ingombranti” – sculture e installazioni disseminate per tutto lo spazio. D’altronde il collezionista ama circondare sé stesso e le persone con cui lavora di riferimenti e stimoli visivi onirici o provocatori, ovvero di immagini che siano sempre fonte di riflessione, se non anche di ispirazione.
L’allestimento – in lenta ma continua evoluzione – è fruibile dai collaboratori e dai clienti. Come abbiamo potuto verificare, parlando dal vivo con alcuni di loro (tra cui i partners Paolo Lorenzo Mandelli e Cristiano Proserpio), queste opere sono diventate occasione di riflessione e in qualche misura collante stesso dello Studio perché, anche quando vengono criticate, sono occasione di confronto e dialogo: due elementi che sembrano permeare profondamente questo luogo di lavoro.
In un’intervista asciutta, diretta, senza peli sulla lingua, Spada ci ha raccontato la “verità” sulla nascita della sua collezione e il perché dell’ingresso dirompente in azienda: lontano da qualsiasi concezione paternalistica o olivettiana della cultura e del bello nei luoghi di lavori, l’arte è e rimane in primis un suo bisogno, quasi un’urgenza personale. L’ingresso delle opere nello studio non è stato pertanto dettato da una visione o motivazione strategica, quanto è sembrato essere il naturale proseguimento della collezione nello spazio che il collezionista vive maggiormente, quello lavorativo. Questa “collezione in azienda”, nata per un approccio pragmatico alla realtà (necessità di spazi aggiuntivi e “arredo” del nuovo studio) si è però trasformata con il tempo in un importante strumento di catalizzazione, differenziazione e marketing per il business.
Come prende forma la sua collezione d’arte?
Non avevo alcuna intenzione di costituire una collezione. Ho sempre avuto un forte senso estetico e avevo comprato casa a Venezia, perché amo da sempre l’atmosfera fuori dal tempo di questa città. Per anni però mi limitai a guardare, visitando soprattutto mostre. Poi ci fu un colpo di fulmine: alla Biennale del 2001 vidi gli scatti di Cristina Garcia Rodero e dopo poco acquistai di impulso Hombre Candela, il mio primo pezzo, che collocai nel salotto del mio vecchio appartamento. Poi fu un crescendo di acquisti, sempre in primo luogo dettati dal mio istinto e da ciò che mi piace, senza troppo considerare il parere altrui. Comprai così un’opera molto importante di Paul Graham a una fiera e cominciai a fare “viaggi d’arte” con la compianta Claudia Gian Ferrari e con l’amico Giuseppe Iannaccone: India, Iran, ovunque nel mondo visitammo insieme gallerie e studi di artisti in una sorta di azione di talent scout che ricordo con grande affetto.
Quando ha capito che aveva una collezione d’arte?
Quando finirono in fretta le pareti di casa e cominciai ad accumulare lavori in soffitta.
Quali sono i filoni della sua collezione?
L’immagine è il vero comun denominatore. Scelgo d’istinto e il gusto negli anni si è inevitabilmente affinato, ma senz’altro dalle fotografie alle sculture di Charles Avery, per cui nutro un amore quasi compulsivo, mi colpiscono ancora oggi sempre e comunque quelle immagini che hanno qualcosa da raccontare a livello sociale o che evocano o afferiscono a una dimensione trascendente e onirica. L’arte mi deve far riflettere o sognare. Non a caso in camera mia ho otto grandi lavori di Nandini Valli Muthiah, che evocano divinità indiane. Mi faccio anche consigliare, o meglio, ci sono persone che mi segnalano lavori che mi possono piacere, ma alla fine l’arte è una cosa mia, personale e quasi intima. Scelgo perciò sempre da solo e sono onesto, questo accade anche nel modo in cui espongo e allestisco le opere a casa come a lavoro.
Quando porta la sua collezione in azienda e perché?
Sono onesto: non avevo più spazio e amo avere tutte le opere esposte. Non sono uno di quei collezionisti che acquista compulsivamente per poi collocare le opere in magazzino. Uno spazio mi piace sempre trovarlo. Una decina di anni fa spostai il mio studio nell’attuale sede. Scelsi questo spazio, non convenzionale per un’attività come la mia, per la luce e per la meraviglia di un progetto olistico architettonico tipico di Caccia Dominioni. In questo ampio studio, che si sviluppa intorno a un giardino interno, ebbi l’intuizione di portare parte della mia collezione. Si trattò di un’intuizione perché non ci fu nulla di ponderato strategicamente, bensì una fortunata convergenza di bisogni: spazi vuoti dalla forte personalità da un lato, eccesso di opere in casa dall’altro. Oggi, perciò, circa un terzo della mia collezione si trova nelle sedi dello studio: la maggior parte in quella più grande di Milano, dove lavoriamo in sessantacinque persone.
In che modo collocò le opere e come si sviluppa l’esposizione attuale della collezione negli spazi lavorativi?
Decisi, e non a caso, di collocare le opere all’ingresso, nei corridoi, nelle sale riunioni e ovviamente nel mio ufficio, unica parte dell’allestimento che non cambia: mi sono circondato di ricordi, regali e di opere che mi ispirano, come le opere di Praneet Soi dal viaggio in India alla grande installazione di sacchi Jsira – Sos di Ibrahim Mahama, dalla quale mi sento come protetto.
Perché non ci sono opere negli uffici?
Perché l’arte è e resta una mia scelta, una mia chiara volontà di vita, che condivido, ma non impongo a chi lavora con me. Le opere non hanno nemmeno un’etichetta, non c’è una pubblicazione dedicata. Chi vuole – e in questo luogo la parola d’ordine è dialogo – viene da me e chiede. A me, che amo totalmente la mia collezione, fa solo e sempre molto piacere. Perciò uno dei più grandi risultati è stato quando ho trasferito un’opera dall’ufficio a casa di mio padre e un mio collaboratore mi ha detto che gli dispiaceva, perché apprezzava molto il lavoro. Ammetto, una soddisfazione.
Cosa pensa della concezione olivettiana per cui il bello e quindi l’arte nei luoghi di lavoro migliora la produttività e il benessere del dipendente?
La prima forma d’arte apprezzata in questo studio è l’architettura e l’ambiente. Non credo poi che l’arte di per sé migliori l’ambiente lavorativo. Ripeto: è una possibilità, un qualcosa che può contribuire, non la chiave di svolta, come la invito a verificare parlando con i miei soci e chi vive questo spazio.
Questo spazio è vissuto ogni giorno da decine di persone (circa ottanta). Come vivono loro la sua collezione in azienda?
Molte opere non vengono capite, altre ignorate, solo alcune piacciono, ma non mi interessa particolarmente l’approvazione, che non rincorro. Sono una persona permalosa in tutto, ma non nell’arte: accetto con un sorriso e tanta autoironia anche le critiche aperte di chi lavora con me, che alcune opere proprio non è riuscito a tollerare. Due volte solamente mi è capitato persino di doverle rimuovere. È lecito che ciò accada. In fondo, spesso metto in mostra (a casa mia come in ufficio) a favore degli ospiti le immagini più forti e provocatorie. Sognare e far riflettere, l’arte per me è sempre tutto questo. Amo esser circondato dal bello e sono convinto che la clientela dei miei studi ovunque in Italia lo capisca e lo apprezzi. E non può essere un caso che di recente mi è arrivata la richiesta di un cliente di vendere un’opera, ma io non vendo.
L’arte in azienda ha quindi per il suo studio anche una funzione di marketing e comunicazione esterna?
Non è mai stato l’obiettivo, ma ora mi rendo conto che, dopo anni di impegno, l’aver sostenuto progetti culturali e artistici dalla grande eco mediatica ha senz’altro un valore economico, anche se intangibile, anche se ammetto non ancora tutti i membri della mia squadra lo colgono. Sono perciò sempre più convinto che l’arte in azienda e nello specifico nel mio studio riesca a dire chi sei, a differenziarti e a posizionarti in un modo coerente con una clientela come la nostra.
La sua azienda, quindi, potrebbe rinunciare oggi alla presenza dell’arte?
Ogni opera d’arte non è dello studio, ma di mia proprietà, concessa in comodato gratuito. Sono però onesto e ritengo che la collezione abbia una funzione e un valore oggi irrinunciabile anche per il business.
Come evolverà la collezione? Vendite e passaggio generazionale sono all’ordine del giorno.
L’arte per me non è un investimento. Da oltre vent’anni compro arte soprattutto d’istinto e mi fido molto di me stesso. Perciò non mi sono mai annoiato di ciò che ho acquisito. Se faccio girare le opere tra appartamenti privati e uffici è solo perché trovo nuovi spazi che valorizzano meglio le opere. Perché allora dovrei vendere le mie opere? In merito al passaggio generazionale non ci ho ancora pensato: ho un figlio di ventidue anni che spesso mi segue, mi critica, ma che è anche sempre vissuto in mezzo all’arte. Mi ha detto fin d’ora che l’opera di Luigi Ontani con cui giocava sin da bambino è sua. E ovviamente lo è e lo sarà. Per me l’arte è questo… la mia vita a trecentosessanta gradi.