In fondo, l’abbiamo sempre fatto: alzi la mano chi, andando a fare la spesa, non ha mai buttato distrattamente l’occhio nel carrello altrui, per capire se quello che abbiamo davanti è un genitore con bambini famelici, un single attento alla linea che ha bisogno di sopravvivere o un signore attempato che porta dei biscotti alla moglie. È uno degli aspetti voyeuristici del cibo, e osservare fingendo indifferenza che cosa mette sul nastro chi ci precede in cassa è un peccato veniale: un modo innocente di non farsi i fatti propri.
C’è la versione uditiva: quando controlliamo al ristorante che cosa ordinano i nostri vicini, convinti di poter capire meglio che cosa servono in quel locale. Prendo anch’io quello, indicando al cameriere un piatto che troviamo particolarmente appetitoso, soprattutto perché è davanti a un altro commensale che ha rischiato la delusione per noi. Proseguiamo ascoltando i discorsi che si fanno a tavola, perché ci piace molto informarci su che cosa berranno, o come divideranno le ordinazioni. Ma anche semplicemente perché ci piace capire come interagiscono gli altri che non siamo noi, a tavola.
Che vino berranno? Ne sanno qualcosa o ordinano a caso? Fingono competenze che non hanno? Io per esempio invidio sempre molto le persone che sono in grado di ordinare con grande competenza e sicurezza nei ristoranti che propongono cucine esotiche. Li vedo librarsi tra pad thai e hot pot, tra colli d’anatra e rosto me salcë kosi e penso che un giorno mi piacerebbe emularli con la stessa abilità.
Ma è con l’avvento dei social network che il nostro voyeurismo gastronomico ha raggiunto vette altissime: e alla domanda «Perché dovrei essere interessato a cosa ha mangiato uno sconosciuto a colazione?» la risposta di chi scrolla è «perché no?». Ci interessa quello, più quello che avevano mangiato per la seconda colazione, il pranzo, la merenda, le incursioni nel frigorifero e i toast di mezzanotte. Dove sono andati a cena, che menu hanno scelto, che vino hanno bevuto. Non è ossessione, è una ricerca antropologica e sociologica che ci porta ad assaporare – letteralmente – le vite degli altri. Emma Beddington sul Guardian le chiama Pringles digitali: non sono altro che un nuovo modo di osservare i nostri simili, capire come e di che cosa si nutrono, che cosa scelgono e perché.
«Mi piace essere stupita – scrive la giornalista – dai taralli o dalla muffuletta (gustosi biscotti siciliani e un panino di New Orleans, a quanto pare) e chiedermi che sapore abbia un “popover con burro alla fragola”, ma il cibo non deve essere per forza interessante. Hai mangiato waffle di patate, un bicchiere d’acqua e un brownie Fiber Now, hai detto? Dimmi di più. L’enorme volume di materiale su “ciò che mangio” dimostra che esiste un mercato oltre le mie possibilità. I diari alimentari sono solo un amuse bouche per un buffet a volontà di influencer alimentari intuitivi su TikTok: uomini muscolosi che si “distruggono” con montagne di petti di pollo, persone che si stanno riprendendo da disturbi alimentari (e alcuni chiaramente ancora in piena crisi), groupie Michelin, maniaci dello street food e gente comune che prepara i toast».
La spiegazione che ci diamo è la più semplice: possiamo mangiare solo un certo numero di pasti e sbirciare sui social degli altri è un modo come un altro per mangiarne indirettamente altre migliaia. E non importa se il cibo degli altri non è sempre appetitoso anche per noi: in fondo, se qualcuno mangia cose che non gradiremmo, la disapprovazione e la testa che scuote ci fanno subito pensare che noi stiamo facendo meglio. Vuoi mettere la soddisfazione?