«Non ho mai googlato il cancro, ma ho scoperto che ciascuno dei miei amici proprietari immobiliari ha un oncologo preferito e un ospedale abbinato. Hanno anche un giardiniere perfetto, un arredatore ideale, e un massaggiatore che insistono – insistono – io usi, perché sono tutti i migliori, e naturalmente ciò che ottieni vale ciò che paghi».
Qualche giorno fa ho riletto l’ultimo articolo di AA Gill, quello che uscì il giorno dopo la sua morte, per un cancro ai polmoni, nel dicembre del 2016. Lo rileggo ogni volta che si parla di sanità pubblica.
«Quelli che non hanno soldi per le proprietà immobiliari hanno diete magiche, omeopatia, cure new age parareligiose, o almeno qualche teoria cospirazionista su come l’industria farmaceutica celi l’efficacia della vitamina C, del cavolo nero, del magnetismo, del vischio».
Ho riletto l’articolo di Gill perché il marito della Ferragni è uscito dall’ospedale, e contemporaneamente una ventisettenne famosa per avere l’endometriosi ha polemizzato contro la sanità pubblica, e contemporaneamente ho finalmente scoperto perché gli uomini coi capelli tinti, anche quelli che vanno da parrucchieri costosi, hanno sempre, sempre, sempre delle tinte tremende.
Quando il marito della Ferragni è apparso davanti alle telecamere mentre usciva dal Fatebenefratelli, io ho pensato alla fatiscente ala dello stesso ospedale cinquanta metri più avanti, dove anni fa un medico – che quando gli avevo chiesto di non darmi del tu mi aveva detto «se vuoi ti do del voi» – è riuscito a sbagliare così clamorosamente il referto di un’ecografia che – vabbè, è inutile che vi racconti l’anno d’inferno che ne è seguito, e dal quale ho tratto l’insegnamento che la gente che dà del tu alle sconosciute non sa fare il proprio lavoro.
Gill si curava il cancro al Charing Cross, un ospedale pubblico quanto il Fatbenefratelli, ed è anche per quello che è morto: perché – ed è questo che rende quell’ultimo articolo particolarmente straziante – all’epoca la sanità pubblica inglese non passava l’immunoterapia. Sarebbe probabilmente morto comunque, ma è più rapidamente morto di burocrazia, del fatto che qualunque esame o consulto con altro medico venisse rallentato dall’essenza stessa del servizio pubblico: il fatto di dover essere di tutti, pagato da tutti, controllato per tutti.
«Mentiamo. Diciamo che è l’invidia del mondo. Non lo è. Diciamo che non c’è nient’altro così. C’è. Diciamo che è il migliore in occidente. Non lo è. Pensiamo sia il più economico. Non lo è. O quello, o pensiamo sia il più costoso. Non è neanche quello. In Francia e in Germania vivi più a lungo, in Scandinavia ti curano meglio e più fretta, e in America è tutto più costoso».
Tutto è tifoseria di curva calcistica, figuriamoci il racconto del servizio sanitario nazionale, in Inghilterra come in Italia. In Emilia, poi. Stefano Bonaccini riporta continuamente sui social trionfanti storie di sanità emiliana, trapianti all’avanguardia, cancri che nessuno avrebbe saputo curare altrove.
La settimana scorsa un tizio è morto d’infarto in ambulanza. È morto perché, siccome non ci sono abbastanza medici, adesso le ambulanze vengono mandate coi soli barellieri a bordo. I barellieri vengono guidati da un medico che, al telefono, dice loro cosa fare.
Dalle ricostruzioni, il medico ha detto ai soccorritori di portare il paziente in ospedale invece di perdere tempo a prestargli i primi soccorsi, giacché i minuti di distanza dall’ospedale rendevano raccomandabile questa procedura. Ha sbagliato la stima? O i soccorritori non avevano aggiunto al tempo del trasporto in ambulanza quello da casa all’ambulanza? O si sono capiti male?
Non lo so, ma il tizio è morto in ambulanza, e solo grazie alla sua morte io ho scoperto dalle pagine di cronaca che c’è un nome per la tragica figura, da commedia all’italiana post-moderna, del medico che sta al telefono a dire cosa fare a dei tizi che non hanno studiato medicina e devono evitare che muoia un infartuato. Il tizio che il servizio sanitario nazionale colloca al telefono si chiama medico-link. Scusaci, dottor Guido Tersilli.
«Gli ascensori ci mettono ore ad arrivare, le porte tentano di aprirsi con un fischio da enfisema, e quando alla fine ci riescono lo fanno senza convinzione né fiducia. Un tizio che sta andando al reparto del cancro ferma la porta con una mano ed esce: ho troppa paura per prendere quest’ascensore, dice».
Io la tizia che ci spiega i problemi della sanità pubblica e della medicina di genere la capisco. Perché le sedie diroccate del Fatebenefratelli, nel mio ricordo, pesano quanto il referto sbagliato, e capisco il paziente del Charing Cross che preferisce morire di cancro che di ascensore malandato.
Perché la tizia ha ventisette anni, e se mi avessero messo in mano un telefono con la telecamera a ventisette anni sai quante stronzate avrei detto, sai quante certezze avrei avuto, sai quanta aneddotica avrei ritenuto verità rivelata.
E perché questa generazione alla quale i neurologi non osano dire che la fibromialgia è una malattia immaginaria per il terrore di vedersi insultati sui social, questa generazione per la quale i suoi sono i primi dolori della storia del mondo, questa generazione alla quale prima o poi qualcuno diagnostica l’endometriosi perché, diversamente da quanto accadeva quando avevo vent’anni io, i medici sanno che esiste, questa generazione ha un problema: non sono passati abbastanza anni dalla sua adolescenza.
La ventisettenne, come tutte coloro che sui social sostengono che nel 2023 l’endometriosi sia una malattia invisibile (era tra le malattie che davano accesso prioritario al vaccino per il Covid, per dire quanto invisibile), parla di ritardo diagnostico. Che significa: ho iniziato a stare male alle prime mestruazioni, e per anni nessuno s’è convinto che avessi qualcosa di anomalo.
Consapevole che lo screenshot di queste righe verrà usato contro di me, devo dire che i «quante storie, le mestruazioni le hanno tutte» della mia adolescenza avevano le loro ragioni. Che non consistevano solo nel fatto che negli anni Ottanta i ginecologi non ti facevano ecografie se non eri incinta e nessuno pensava tu potessi avere del tessuto anomalo che si formava a casaccio in giro per il tuo apparato riproduttivo.
Quando a quattordici anni ti fanno la domanda che fanno in questi casi i medici – la domanda che facevano a AA Gill, che fanno alle ragazze di Instagram – quando ti chiedono quanto ti fa male questa cosa in una scala del dolore da uno a dieci, la te quattordicenne che elementi ha per dare una risposta non isterica? A quattordici anni io piangevo per il male della ceretta: che senso avrebbe avuto prendere sul serio una mia valutazione del dolore? (Lo so, lo so: è il giorno in cui l’internet stabilisce che legittimo la tortura delle adolescenti, e do delle isteriche alle malate).
La ragazza dell’internet pensa che, pagando, i medici siano tutti bravi, e che la sanità pubblica ti lasci morire come ha fatto con AA Gill (non che ella sappia chi fosse). Màmmagàri, ragazza mia, si trattasse solo di pagare: mentre moriva l’infartuato del medico-link, il tribunale stabiliva che una clinica bolognese piuttosto costosa dovesse risarcire un paziente che, entrato per un banale intervento all’alluce valgo, tra setticemia e mancata vascolarizzazione e altre amenità ora si ritrova senza un piede e una gamba. Però probabilmente l’ascensore era sbrilluccicante.
La ragazza crede anche che le diagnosi alle donne si facciano meno accuratamente, perché ha visto “Grey’s Anatomy” e ha scoperto la branca di studi denominata “medicina di genere” e che l’infarto femminile ha sintomi diversi e meno studiati.
Ho sciorinato al mio parrucchiere una serie di nomi di uomini famosi con parrucchieri costosi, tutti che sembrano tinti col lucido da scarpe. Perché, gli ho domandato mentre lui sorrideva come chi conosce il mondo davanti alle domande banali dei cinquenni. Mi ha spiegato pazientemente: gli ormoni maschili fanno attecchire diversamente la tinta, quindi servirebbero colorazioni strutturate diversamente, ma ancora non vengono prodotte, si usano quelle che sulle donne funzionano e sugli uomini fanno quell’effetto topo morto in testa.
Ho pensato: follow the money, come al solito. Ho pensato: con le tinte maschili c’è da guadagnare meno che con quelle femminili, esattamente come a investire nella ricerca sul Viagra c’è da guadagnare di più che in quella sull’endometriosi, e quindi. Ho pensato: peccato non abbia ventisette anni, sennò potevo accendere il telefono e trasformare questa istantanea in sicumera. Come le ragazze dell’Instagram, quelle con uso di screenshot che ora potranno dire: per Soncini l’endometriosi è come la tinta dei capelli; come gli amici di AA Gill.
«E tutti, ma tutti, hanno un qualche mantra sulla segretaria del marito o su una loro ex collega alla quale hanno dato tre settimane di vita e dieci anni dopo è ancora lì che impila roba sugli scaffali o dirige un’orchestra. Queste piccole omelie vengono offerte con l’intensa insistenza con cui ti porgerebbero degli amuleti, usando il linguaggio delle religioni evangeliche e il tono incoraggiante degli spogliatoi sportivi».