Capelli di cittadinanzaL’invidia del bisogno e quelli che vantano vite che non vorremmo fossero la nostra

Viviamo nella società in cui le persone meno meritevoli della nostra ammirazione ritengono, senza traccia di ironia, di essere invidiabili: il caso dei percettori del sussidio di povertà e quello del signor Meloni

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C’è una parola che si usa moltissimo nei gruppi Facebook dedicati al reddito di cittadinanza. Lo schema è più o meno fisso. Qualcuno posta qualche domanda, sapete che giorno pagano questo mese, ma quindi è vero che ce lo tolgono, secondo voi perché non mi fa prelevare.

Qualcun altro risponde cose a caso, secondo quello che è l’ordine mondiale in questo secolo: facciamo domande a gente che ci risponde gratuitamente, e siamo sinceramente convinti di poter ottenere risposte competenti, e disposti a credere alla sicumera dei passanti.

Ma a un certo punto sempre, implacabilmente, arriva qualcuno, imbucato quanto me in quel gruppo i cui interrogativi e bisogni non lo rappresentano, che si mette a insultare i presenti, a dir loro che sono degli scrocconi, che vivono a rimorchio dei contribuenti, che devono vergognarsi.

Con altrettanta certezza e implacabilità, se ti siedi e aspetti che lo spettacolo si svolga nella sua compiutezza, all’imbucato risponderà un residente. Che, senza traccia di ironia, dirà perentorio: la tua è tutta invidia.

Quando ho iniziato a osservare la parte di popolazione che non solo riceve il reddito di cittadinanza ma si rappresenta anche pubblicamente come appartenente a quella categoria, era una vita che vedevo l’umanità abusare del concetto di «invidia». La-gente-è-invidiosa era, da sempre, lo slogan dei meno invidiabili del mondo.

L’invidia era una categoria da cognate di “Parenti serpenti” – che cercano di elevare le loro vite meschine percependole comunque meno meschine di quelle delle altre cognate – mica da Liz Taylor o da Beyoncé o da Simone de Beauvoir.

Certo, non si può invidiare qualcuno di troppo distante per arrivare a toccarlo (l’invidia prevede che l’invidioso schiacci il naso sulla vetrina: che senso ha ch’io invidi Kate Moss? Vive evidentemente in una parte del cosmo che mi è preclusa, e ha un’esistenza che neppure riesco a immaginare, ma di sicuro non somiglia alla mia: di sicuro Kate Moss la mattina non ha i segni del cuscino in faccia, e la sera non impreca chiedendosi come le sia venuto in mente di dir di sì a quell’invito a cena).

Però è anche difficile reputare invidiabili coloro che liquidano ogni obiezione come «invidia»: essi perlopiù hanno prosa sciatta, pori dilatati, senso estetico traballante, tinture dei capelli malfatte, patrimoni risicati, arredi che fanno male agli occhi, figli ripetenti, repertorio d’aneddoti noioso, e insomma vite che non vorremmo fossero la nostra.

Eppure l’uso di «tutta invidia» è così disinvolto e così apparentemente sincero da farmi pensare che ci credano davvero. La tizia la cui prosa pare quella del calendario di Frate Indovino è davvero convinta che se non vince premi letterari sia perché i giurati sono invidiosi. Il tizio che passa il tempo a filmarsi su Instagram è davvero convinto che chi irride i suoi anelli d’argento ne sia invidioso, e li voglia comprare ma non se li possa permettere, o tema che non gli starebbero altrettanto bene.

E quindi certo: colui la cui situazione economica è così poco invidiabile da rendergli necessario farsi fare l’elemosina dalla fiscalità generale può benissimo ritenersi invidiabile. Chissà se tra un secolo, nelle ore scolastiche di filosofia, si studierà questa nuova categoria: l’invidia del bisogno.

«Invidia» non è più una parola: è una frase fatta, e come tale ha perso ogni senso. La si ripete per il suono e non più per il significato. Vale come «con tutti i soldi che hanno speso per farmi studiare», o «non ci sono più le mezze stagioni»: la dici in ascensore, per orrore del silenzio nello spazio condiviso con qualche sconosciuto, per imbarazzo, per goffaggine.

Come sta la sua signora, se non ci vediamo prima di Natale auguri, ha visto ormai come fa buio presto, l’importante è la salute, come crescono in fretta questi ragazzi, i politici pensan solo a rubare, meglio un buon libro, tutta invidia.

Maurizio Costanzo, che era un uomo saggio, diceva che, quando ti chiedevano come stavi, dovevi sempre accampare un mal di testa: se l’interlocutore ti compativa, non avrebbe infilato spilloni nella tua bambolina. Era un uomo del Novecento, e sapeva che essere invidiati non era un obiettivo sensato. Ma lo spirito del tempo è andato nell’altra direzione, e ormai immaginiamo invidia ovunque.

La ragione per cui “Mille giorni di te e di me” è, tra tutte le canzoni di Baglioni, la preferita di tutti, anche di quelli che non vogliono ammetterlo, sta lì: «Io e te, che facemmo invidia al mondo». Essere felici non è male, sì: ma vuoi mettere essere invidiabili?

«Se uno si guarda attorno l’Italia è invidiata, amata, tenuta in altissima considerazione ovunque, fuorché qui, dove l’influencer che va per la maggiore è da sempre Tafazzi, il mitico personaggio di Aldo, Giovanni e Giacomo che si dava continuamente le mazzate sugli attributi»: lo dice Giorgia Meloni nel libro intervista con Alessandro Sallusti (le cui vendite non mi fanno invidia quanto quelle dell’autobiografia meloniana), Lo dice descrivendo un mondo in cui da una parte ci sono gli invidiosi, e dall’altra gli influencer (parola rivelatrice) in preda a sindrome dell’impostore, che non si rendono conto di quanto sono invidiabili.

E questo era il mio editoriale sull’intervista di Bellicapelli Giambruno a Chi: intervista «senza peli sulla lingua», come scrive con invidiabile mancanza di gusto per le parole l’intervistatrice.

A domanda sul suo tratto più caratteristico, Bellicapelli risponde: «Mi dica: faccio peccato? È vietato avere i denti bianchi e i capelli folti? Ho 42 anni e non li perdo. Devo nascondermi? Anzi me li faccio crescere appositamente. C’è un’invidia in giro ragazzi… incredibile».

L’invidia del reddito di cittadinanza, l’invidia del cavatappi a forma di delfino, e poi Bellicapelli, che fece invidia al mondo.

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