Palazzo Berlaymont e l’Europa Building distano neanche cento metri; nel mezzo corrono il traffico senza sosta di rue de la Loi e i pallidi tentativi brussellesi di realizzare delle piste ciclabili che non finiscano nel nulla. Ma, in assenza di leggendari cunicoli sotterranei come quelli che il mito attribuisce al perimetro tra Palazzo Chigi e Montecitorio, a separare il quartier generale della Commissione europea e le sale multicolor del Consiglio europeo c’è un gelo siderale con conseguenze dirompenti per tutto il delicato microcosmo Ue.
La posizione sul conflitto Israele-Hamas ha scoperchiato ancora una volta il vaso di Pandora. Al di là dei giochi di ruolo, incomprensioni e dissidi sono diventati autentici passi falsi politici che affossano la credibilità della politica estera europea. E vanno, anzitutto, ricondotti alle personalità dei due vertici che reggono le sorti politiche dell’Ue, poli inavvicinabili della farraginosa collaborazione interistituzionale al cuore dell’Unione: Ursula von der Leyen e Charles Michel.
Gemelli diversi emersi insieme dall’ondata di nomine dell’estate di quattro anni fa, ma mai divenuti coppia di fatto. Che i due si sopportino a fatica, a Bruxelles non è un mistero; nelle abituali conferenze stampa al termine dei summit, neppure ci provano a dare l’impressione di tollerarsi a vicenda o a segnalare che qualche ricucitura sia tutto sommato possibile. Anzi, spesso approfittano della presenza di un ospite d’onore fra von der Leyen e Michel, ad esempio il malcapitato premier che ha la presidenza di turno del Consiglio, come cuscinetto per ridurre la vicinanza fisica.
Adesso, però, la gestione dell’acuirsi del conflitto tra Israele e Hamas dopo l’attacco terroristico delle milizie armate del 7 ottobre scorso ha messo a nudo ancora una volta non solo i protagonismi rivali, ma anche il fatto che siamo a un punto di non ritorno per il posizionamento internazionale Ue.
L’iperattivismo a sostegno di Israele mostrato da Ursula von der Leyen nelle ultime due settimane, con dimenticanze sul rispetto dei paletti messi dal diritto internazionale umanitario sull’assedio di Gaza, ha infastidito i governi e pure un ampio fronte di funzionari Ue (in 842 hanno firmato una lettera per prendere le distanze dalla loro capa).
Dal premier israeliano Benjamin Netanyahu a Tel Aviv, per una visita lampo, la tedesca si è del resto recata accompagnata dalla presidente dell’Europarlamento Roberta Metsola, ma non da Charles Michel, né dall’Alto rappresentante Josep Borrell; entrambi si sono, invece, poco dopo recati in duo al Cairo per il summit della pace con i Paesi arabi convocato dall’Egitto.
La numero uno dell’esecutivo non ha solo superato in curva le capitali in quello che è il loro orto prediletto, ma si è dimostrato al tempo stesso incapace di tenere a bada i suoi, dopo la fuga in avanti del commissario al Vicinato, l’ungherese Olivér Várhelyi, che aveva annunciato lo stop agli aiuti Ue alla Palestina.
L’orientamento è stato poi parzialmente corretto dai colleghi commissari, da vari ministri e dallo stesso Borrell: sui sostegni umanitari Bruxelles non fa passi indietro; su quelli allo sviluppo (l’Ue è il principale donatore della Palestina) si avvia una revisione dell’esistente per capire se mai qualche fondo è finito nelle casse di Hamas.
«Abbiamo assistito a una cacofonia iniziale, certo non da parte degli Stati membri», ragiona una fonte diplomatica europea, prima di schermirsi, consapevole che a queste latitudini si è più abituati «a vedere i governi divisi, e non la Commissione» perdere pezzi: «Noi per una volta abbiamo fatto da spettatori».
Ma, poiché il protocollo è sostanza, la questione istituzionale rimane in tutta la sua gravità. Tanto che la videoconferenza straordinaria dei leader Ue convocata d’urgenza il 17 ottobre è stata vista come un segnale per riprendere in mano le redini e mandare un messaggio all’altro lato di rue de la Loi: «von der Leyen si è spinta troppo in là».
Qualche giorno fa, un autorevole funzionario diplomatico Ue di stanza a Bruxelles aveva fornito una spiegazione senza giri di parole: «Spetta al Consiglio», non alla Commissione, definire le linee guida della politica estera Ue.
Perlomeno finché non saranno riformati i Trattati per semplificare il quadro, limitare l’unanimità e i veti ed espandere il ruolo della Commissione in materia, come suggeriscono da tempo analisti, accademici e commentatori pro-Ue. Ad oggi, però, il Trattato sull’Ue all’articolo 15 incarica il presidente del Consiglio europeo quindi Michel, di «assicurare la rappresentazione dell’Ue in materia di politica estera e di sicurezza comune»; e poche righe dopo demanda invece tutte le altre «rappresentazioni esterne» (stavolta sì comprese la cooperazione internazionale e l’aiuto umanitario) alla Commissione, e quindi a von der Leyen.
Colei che, al debutto del suo mandato aveva promesso di essere la presidente di una Commissione «geopolitica», e si è ritrovata ad affrontare gli incendi nel vicinato, dall’invasione russa dell’Ucraina a, oggi, la nuova fase della guerra Israele-Hamas.
Geopolitica sì, insomma, ma nei limiti della complessa architettura Ue. E di rapporti personali che non sono mai decollati, complici foto zoomate a regola d’arte (lo ha fatto von der Leyen, per tagliare Michel, in occasione della commemorazione di Bruxelles per le vittime del 7 ottobre). Le radici dei dissapori tra il belga e la tedesca, dopotutto, sono antiche, finite negli annali dopo la crisi del «sofagate» in Turchia, nella primavera di due anni fa (quando l’uomo forte di Ankara Recep Tayyip Erdogan “apparecchiò” una sedia solo per Michel e non anche per von der Leyen, fatta accomodare su un divano).
Da lì in poi, l’aneddotica ha preso il sopravvento, disseminata di non-photo opportunity. Questa settimana, ad esempio, il Forum del Global Gateway, il piano di investimenti infrastrutturali Ue per rivaleggiare con la Cina, è stato organizzato dalla Commissione senza coinvolgere il dirimpettaio che rappresenta gli Stati membri (e che su Pechino ha una linea più morbida e dialogante rispetto alla controparte), mentre al G20 di New Delhi, a settembre, i due hanno incontrato separatamente i presidenti di Brasile Lula e Egitto Abdel-Fattah al-Sisi e il premier cinese Li Qiang.
Lo stesso è avvenuto a metà ottobre in occasione del summit Usa-Ue a Washington, con due bilaterali distinti alla Casa Bianca a cui si è prestato Joe Biden. I meme, termometro politico di ciò che succede nel quartier européen ben più dei minuziosi briefing dei lobbisti, hanno inchiodato la coppia già da tempo alle loro responsabilità, ritraendo l’anziano presidente americano a interrogarsi sull’identità dei suoi interlocutori, e il suo segretario di Stato Antony Blinken impegnato invece a decifrare la natura anfibia del capo della diplomazia Ue Borrell. Altro che il numero di telefono del Vecchio continente sognato da Henry Kissinger…
La strada verso l’Europa politica è lunga. Volevamo essere House of Cards, ma siamo finiti in una puntata di Casa Vianello.