Luce scrittaLeggere le mappe del testo nell’umile abnegazione delle pagine

La sesta puntata del romanzo in corso di Pasquale Panella, opera di cui non sa nulla, neanche il titolo: «Che altro? I sentimenti, ah sì, come no, ci mancherebbe (ci mancherebbero?), li avevo dimenticati, li dimentico sempre»

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Più del paesaggio, la luce. Nel romanzo la luce conta più del paesaggio. (Che svergognata falsità il paesaggio paesaggistico sul rigo, sulla pagina. È per caso un orizzonte, il rigo? È catastale, demaniale, la pagina, per caso? In principio la pagina biancheggia muta oppure mugugna buia?). È un piacere vedere i maestri dello scrivere al lavoro con i loro lampeggiamenti abbaglianti e anabbaglianti, coi loro acciarini, questi maestri elettricisti, fuochisti, candelai, che maneggiano fili di righi scoperti, stoppini di frasi serpeggianti, micce, le micce, come no, micce per accensioni a distanza, venti righe più avanti. La pagina è la superficie sulla quale batte, cola, striscia, riverbera ogni luce.

Nel romanzo la luce non cade sulle foglie mosse, sull’acqua instabile, sulla montagna immobile, su cose e persone, no, cade sulla pagina e sono sempre le parole che la soccorrono e la sollevano al rango di luce scritta. Ma ci vuole maestria. Nella maggior parte dei romanzi si va avanti a tentoni cercando interruttori a vanvera e facendo cadere le suppellettili fragili del linguaggio o ci si sbraccia a mosca cieca schiaffeggiando l’aria, il libro e chi lo scrisse. Davanti allo schieramento delle parole pronte a tutto ogni luce in principio si fa tremula, esordiente, anche impaurita, allarmata. Le parole provvedono a dare alle luci quello che serve, decisione o morbidezza, slancio o titubanza, solidità o mollezza, affilatura, pezzatura, scheggiatura, modanatura, sagomatura, profilatura, e lo fanno con le tronchesi, con le forbici da lattoniere, con magli, presse, affettatrici, erpici, falci, seghetti alternativi, macchinette a rullo per spianare la pasta, col mattarello, sì, e anche con le rotelline per ritagliare strisce raggianti coi bordi a zig zag su sfoglie di sole color pasta all’uovo tonde nel cielo.

Le parole hanno i mezzi per farsi capire, e davanti a loro finalmente le luci perdono quella presunzione di naturalezza e si mettono al servizio della pagina scritta sulla quale non possono mica cavarsela con le loro leccature e sbavature che trovi dovunque. Il lavoro sulle luci è anche una disciplina severa, hai la responsabilità di quello che scrivi, devi trovare la giusta luce (che non si trova in natura), e devi renderti conto che quello che scrivi sta in quello che scrivi e non sta altrove, sennò che scrivi a fare se lo trovi dovunque, soprattutto nell’ovvia natura. Un lampione sul rigo non è mica un qualsiasi lampione su un bordo di strada che fatta la frittata e volendo rigirarla la fa cadere dalla padella spandendo al suolo una luce piattamente reale da frittata appunto. Un romanzo scarso e una scarsa poesia sono cose che si trovano dovunque nella vita. Che altro?… Questa espressione da pizzicagnolo mi è sempre piaciuta. Incarto o vuole altro? La carta oleata… che poi non era né oleosa né unta, era casomai unto quello che avvolgeva (perché parlo al passato? Mi pare anche che abbia abbassato la voce).

Che altro? I sentimenti, ah sì, come no, ci mancherebbe (ci mancherebbero?), li avevo dimenticati, li dimentico sempre. Un par d’etti? Poi vedrò quali strumenti di tortura utilizzare, quali paroline ribadire come rivetti a martellate nelle loro orecchie per farli dimenare un po’, chiedere pietà. I sentimenti chiedono sempre pietà, certe volte non li sopporto per questo, tendono al patetico, e dopo qualche minuto di interrogatorio o di semplice esposizione all’aria confessano tutto, praticano la delazione di sé e dell’oggetto delle loro attenzioni in un unico sospiro. Non c’è da fidarsi, possiamo solo sopportarli. Scrivere di scrivere è un atto così sfacciatamente anaffettivo (vado a vedere cosa significa anaffettivo e viene fuori che l’anaffettività è uno dei sintomi della depressione, mi stupisce, non lo sapevo, avrei creduto il contrario, anche se non ci ho mai pensato; in verità ero andato a vedere come si scrive perché il correttore continua a darmi errata sia la parola anaffettivo, sia la parola anaffettività. Sono parole scorrette? Mah). Comunque, scrivere di scrivere non è cosa che interessi poi tanto. Leggere lo scrivere dello scrivere, intendo. Ma è proprio per questo che lo farei, perché non è una cosa di interesse comune né di comune buon senso, è una cosa di imperio, di potestà, è una piccola cosa di vasta supremazia nel settore della pagina, sia cartacea sia elettronica.

La pagina è, esiste a prescindere dall’essere letta perché si legge da sé, e questo – non sembrerebbe – è segno di umile abnegazione, se proprio vogliamo fingere un certo spirito di sacrificio (lo spirito e basta). La pagina è consapevole, sente quegli occhi addosso, su di sé (li vede?), e si chiede perché quegli occhi la stanno scorrendo (certe espressioni comuni mi convincono sempre più che il linguaggio ha vocazione surrealista da sempre), e poi un’altra e poi un’altra pagina (chi legge assume la posa di quegli asinelli che conficcano il loro sguardo dolce nel vuoto tra i due paraocchi che sono pagine aperte sul vuoto di un mondo faticoso), perché? Ultimamente le pagine sono percepite sempre più numerose di quante siano, le anteprime di un libro sono persino più lunghe e abbattenti del libro intero. (Sto allungando anch’io la brodaglia di questa puntata a mo’ d’esempio). Scrivere di scrivere è la chiusura di un forziere piratesco nel quale sono riposti i segreti creati dallo scrivere (è un giro vizioso, molto vizioso), leggere non significa niente (non sto infatti rivelando niente di nuovo a chi legge e ne sa più di me) se non sai leggere la mappa nel testo (e il testo è un baule, l’ho detto, e il libro è un’isola, ovviamente: sto dicendo per scherzo cose che altrove sono dette seriamente).

L’indizio di un segreto è rapido, subito sfuggente, devi toglierti l’occhio da lettura, devi innestare nel tuo sguardo una palla contundente, devi leggere a cannonate, a bordate di battiti di ciglia. E poi sbirciare, ecco sì, guardare tra le fessure delle righe, tra squarci e crepe che il tuo sguardo ha fesso, come no, le brecce nelle quali devi concentrare il lancio delle tue sospettose occhiatacce, devi scoccare sguardi obliqui come schegge avverse, devi far rotolare gli occhi anche tirando di sponda, devi inchiodare gli storti chiodi tetanici dei tuoi malocchi (lo fai, come no, sei lo fai, o lettore iettatore), devi far scodinzolare le tue code dell’occhio ritorte come cavaturaccioli (vuoi sempre tirar fuori, stappare qualcosa, so cosa: eiaculazioni spumanti dal testo, femminili e maschili, lo so), devi infilare la pupilla in buchi di serratura nella pagina là dove sospetti che una parola chiave abbia avuto il suo gioco e che di là il corpo tipografico sia nudo e la parola chiavi, devi, puoi, anzi vuoi, sì, certo, spiare, ma sì; chi è che al giorno d’oggi non viene da un certo qual freddo? Smicciare, ecco, smicciare (esiste, esiste, lo riporta sia il Dizionario De Mauro sia il Dizionario Olivetti, Treccani no, oggi no, forse domani, citando questo rigo a mo’ d’esempio). Scrutare, sogguardare forse. “E non senza rossore” (Manzoni).

Da domani mi metto a scrivere, domani scriverò. Il motto diventa promessa. Un romanzo? Un romanzo, ma sì, questo antico recluso in un armadio ancestrale (lo tiro fuori come da una patta), questo corpo velato in una madia, questa pasta di pane presa a pugni ma anche maneggiata con segretissima voluttà amorosa, e i pugni erano dati con la furia di una esigenza (l’ho visto fare, ho visto romanzi lievitare sensualmente in quel cassone; non è forse un ventre un pane, e uno sfilatino non è forse uno sfilatino?). E lo scrivo qui. E non ho che me per farlo, non ho niente altro, solo acqua, farina, pasta madre (io nacqui) e quel po’ di sale, non ho trame intrighi, intrecci, imbrogli, plot e complotti, impicci vari. Ma siamo ancora al prologo o tutto il romanzo è un prologo al suo titolo e va avanti così? No, perché non so mica se…

(6 continua)

Questa è la sesta puntata di un romanzo in corso del quale non sa nulla, neanche il titolo. Qui si può leggere la quinta. Qui si può leggere la quarta. Qui la terza. Qui la seconda. Qui la prima.

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