«Vertical farm vuol dire tutto e niente. La maggior parte dei player ha preso l’agricoltura tradizionale e l’ha messa sotto un tetto mantenendone le vecchie caratteristiche. Noi siamo stati i primi al mondo a consegnare un prodotto che non dovesse essere lavato per essere consumato». Luca Travaglini e Daniele Benatoff – fondatori di Planet Farms, azienda specializzata nella produzione di insalate baby leaf e basilico – sono stati i primi a interpretare questo modello ricercando la completa automazione dei processi attraverso tutta la filiera, dalla semina al confezionamento: il consumatore doveva essere il primo a toccare il prodotto finito.
Per quanto l’immaginario del contadino accovacciato nell’orto, intento a raccogliere frutta e verdura, sia indiscutibilmente più romantico, difficilmente potrà essere più efficiente, sicuro (non servono fertilizzanti, pesticidi o erbicidi) e – soprattutto – buono. Ogni coltura ha la sua ricetta, di cui luce, acqua, aria e sali minerali sono gli ingredienti dosati ad hoc per rispettare la fisiologia della pianta, affinché possa esprimersi al meglio, libera dai fattori di stress e senza vincoli di stagionalità. E così il romanticismo sacrificato dagli automatismi torna nel sapore, capace di abbattere ogni pregiudizio.
Sebbene la sostenibilità sia implicita nel Dna di Planet Farms, non è il primo driver di ingresso. Anche perché il cibo ha una componente edonistica che va rispettata: il gusto – a braccetto con la qualità, intesa soprattutto come sicurezza alimentare – rimane il fattore trainante e differenziante, tant’è che il tasso di riacquisto è altissimo.
La sfida principale è quella di far entrare il prodotto nel carrello, e su questo il prezzo al chilo proprio non aiuta; anche se sarebbe più corretto guardare al residuo secco, doppio rispetto alle buste piene d’acqua delle insalate tradizionali. Ma il consumatore è attento, bisogna solo attendere che dia una chance al prodotto: «Faccia attenzione: c’è scritto ottanta grammi ma ce ne sono molti di più!». Così un’acquirente soddisfatta mette in guardia Daniele Benatoff accanto agli scaffali del supermercato (naturalmente ignara di parlare a uno dei fondatori dell’azienda).
Il dialogo con i consumatori è però intermediato dalle Gdo: questa relazione a distanza difficilmente nasce da un colpo di fulmine ma – creata l’occasione – sa durare nel tempo. E per aumentare il valore percepito di un bene generalmente destinato all’acquisto impulsivo, la strategia di marketing ha puntato sulla semplificazione, enfatizzando la caratteristica che in fin dei conti ha più importanza: l’insalata Planet Farms è «frescaah», come recita lo spot Asmr (acronimo per “Autonomous Sensory Meridian Response”) che sussurra il nome della nuova linea. Le sue foglie rimangono croccanti a lungo, e oggi sono ben visibili attraverso la finestra allargata del nuovo packaging. Anche il prezzo guadagna appeal, strizzando l’occhio alle vittime – tutte – dell’inflazione.
La riduzione del costo finale non è il frutto di una tattica promozionale, bensì una conseguenza naturale del crescente efficientamento della resa, ottenuto grazie all’ottimizzazione tecnologica derivante dallo studio continuo, dentro e fuori lo stabilimento.
La vertical farm di Brusaporto non è puro marketing, ma un laboratorio collaborativo di ricerca e sviluppo, in cui una tecnologia consolidata si mette al servizio del palato, che la sfida ogni giorno a creare qualcosa di nuovo, dal fiore di rucola wasabi al fieno greco passando per il nasturzio. Luca Travaglini ha conquistato i fratelli Cerea con il gusto – e non con la sostenibilità – del suo basilico, e da questo incontro è scaturito il nuovo modello di farm-to-table interamente dedicato al ristorante Da Vittorio: dal 2022 baby-ortaggi e piante aromatiche “a metro zero” sono disponibili tutto l’anno con quantità costanti e caratteri qualitativi replicabili, creando fermento nella brigata e foraggiandone la creatività.
Questo nuovo paradigma non ha portato dinamismo solo nelle cucine tristellate dell’hinterland bergamasco, ma anche nella quarta gamma e – per estensione – nell’agricoltura tradizionale, che è trattata come una realtà da preservare e non come una concorrente. Planet Farms si posiziona piuttosto come un riferimento, analogo a quello che la Formula 1 può rappresentare per il settore automobilistico: il monitoraggio continuo delle coltivazioni alimenta una banca dati di immenso valore agronomico, offrendo anche ai metodi convenzionali nuove prospettive di miglioramento.
Ed è sempre merito della tecnologia se questo settore anagraficamente maturo e prevalentemente maschile sta “seducendo” un capitale umano giovane ed eterogeneo: «La nostra è un’agricoltura sexy», spiegano i fondatori, che hanno convertito una forza lavoro tipicamente manuale in forza lavoro tecnologica. I farmers del futuro sono neolaureati e professionisti con esperienze internazionali nelle discipline (prevalentemente scientifiche) più disparate, uniti dal desiderio di dar vita a un nuovo tipo di agricoltura.
Non si tratta di un progetto visionario, perché lo stabilimento di Cavenago è una realtà, e rifornisce più di duemila punti vendita con oltre due tonnellate di prodotti al giorno. «Ha soli cinque anni, ma per noi è già ieri», commentano Luca e Daniele pregustando – orgogliosi – l’imminente apertura del nuovo sito di Cirimido, la cui efficienza è frutto dell’esperienza maturata sul campo. Dopo una partenza difficile, sfidante soprattutto a livello di educazione e di comunicazione, la domanda è cresciuta in modo incredibilmente rapido, al punto da richiedere uno stabilimento che avrà il doppio dell’estensione e una capacità produttiva triplicata. «Chi assaggia il prodotto non lo molla più, addirittura ne consuma più del doppio rispetto agli equivalenti di categoria». Se la verdura è buona, non è poi un gran sacrificio mangiarla.
E l’Italia è “solo” il trampolino di lancio per il mondo. Il gemello evoluto di Cirimido sorgerà infatti a nord di Londra, per servire il bacino meridionale dell’Inghilterra «che oggi neppure conosce il sapore dell’insalata fresca». Non si tratta di una scommessa al buio: è una crescita ambiziosa ma ponderata, dal momento che il valore percepito dai Paesi ostacolati dal clima è nettamente superiore, anche per una sensibilità decisamente spiccata alle tematiche di sostenibilità. E dove il consumatore è già educato, Planet Farms trova terreno fertile garantendo per giunta un prezzo molto più basso – grazie alla produzione in loco – di quello che sono abituati a sostenere.
L’avventura espansionistica non si ferma oltremanica e neppure si limita al basilico e al lattughino: «Siamo una società tecnologica e non un player di insalate. Siamo partiti con il creare un segmento nuovo e ora siamo pronti ad aggredire nuove colture, quelle a maggior impatto ambientale: cotone, caffè, grano e lino». E per le prime due l’Islanda sembra essere il candidato più appetibile: il (basso) costo dell’energia è senza dubbio il fattore trainante, unitamente a una velocità burocratica inaudita. La logistica potrebbe sembrare complicata in un Paese dominato dalla natura più che dall’uomo – in realtà bastano due giorni di nave per raggiungere i principali porti europei – ma bisogna pensare che oggi questi prodotti arrivano dal Sud America o dall’Africa, e devono attraversare catene lunghe e frammentate.
«Non vogliamo scappare dall’Italia. Siamo un’azienda italiana e vogliamo rimanere italiani», rassicurano i fondatori, che però devono pensare al bene del loro business. E noi italiani – consapevoli dei nostri ossimori – continuiamo a tifare per i nostri ambasciatori nel mondo.