Una dimensione mistica, una drammaturgia sonora in cui le convenzioni metriche vengono decostruite per essere rimaneggiate e riproposte in una versione fluida, che unisce l’antico al moderno, accostando una produzione contemporanea di elettronica a una voce dagli echi arcaici. Daniela Pes è una musicista e cantautrice sarda, nata nel cuore della Gallura nel 1992. Il suo album d’esordio è “Spira”, uscito il 14 aprile 2023 per Tanca Records e prodotto da Jacopo Incani (in arte Iosonouncane) e per cui ha ottenuto la Targa Tenco come Miglior Opera prima.
La musicista si esibirà il 24 novembre durante la nona edizione del Linecheck Festival, un evento che si svolgerà dal 21 al 25 novembre al centro culturale e creativo BASE, nel cuore del quartiere Tortona a Milano. Daniela Pes Daniela Pes si è esibita registrando il sold out il 4 novembre al Manifesto fest presso l’Angelo Mai di Roma, il 9 novembre al Locomotiv Club di Bologna, sarà inoltre l’11 novembre al Barezzi Festival a Parma, il 12 novembre al NJ Weekender di Novara e il 28 novembre all’OGR Torino
Come ti sei avvicinata alla musica?
Ho cantato sempre, da sempre. Provengo da una famiglia in cui mio padre è musicista, mia madre è un’ottima ascoltatrice nonché uditrice di ogni mia idea musicale primordiale. Anche i miei fratelli si occupano di musica: uno è compositore e pianista, l’altro invece è batterista. A casa sono sempre attorniata da strumenti. Nella mia vita non mi sono mai posta la domanda “Io che cosa voglio fare nella vita?”, perché lo sapevo già, l’ho sempre saputo. Mi sono sempre espressa tramite la musica. Quello che mi sono chiesta spesso invece è: riuscirò a fare questo nella vita? Per ora ci sto riuscendo e ne sono felice.
In altre interviste hai detto che non ti piace categorizzare la tua musica, come descriveresti il tuo lavoro?
Non so, questo disco racchiude tanto della mia vita. Non saprei dare una risposta a questa domanda, perché ogni persona ha il suo sentire, ognuno vaga per le proprie immagini, dipendentemente dalla propria storia, dalle proprie esperienze di vita, dal proprio carattere. Mi piace la libertà, mi piace che ogni persona ascoltando i brani mi riporti diverse sensazioni, immagini, situazioni, paesaggi che contribuiscono a dare un senso a Spira.
Nell’album hai deciso di proporre dei suoni, invece che dei concetti. Perché questa scelta?
Nel mio percorso musicale le parole sono sempre state in secondo piano. Per la mia esperienza è sempre stata più importante una linea melodica cantata con una certa intenzione, più che le parole stesse. Sono cresciuta ascoltando grandi cantautori come Dalla, Battiato, De André, Capossela e ho capito quanto la parola possa essere potente e quanto il suo significato possa essere amplificato dalla musica. Per il tipo di persona che sono e per il mio istinto, mi ha sempre attratto di più il suono, la musica, l’intenzione e non ho mai avuto l’esigenza di scrivere dei testi, di proporre delle immagini, né di descrivere delle situazioni.
Per capire e accettare questa mia esigenza musicale mi è servito tanto tempo. Ho avuto bisogno di fermarmi per capire che direzione volessi prendere. Il tempo mi ha permesso di capire a fondo quale fosse la mia urgenza, di mettere a fuoco il modo in cui lavorare. All’inizio questa ricerca musicale e personale mi ha fatto soffrire, perché non capivo come dovessi lavorare, come incanalare il mio istinto musicale, cosa mi servisse per raggiungere il livello massimo di espressività, come maneggiare la materia testuale per renderla rappresentativa del mio sentire. Il suono è molto più universale delle parole, perché è svincolato dalle storie e dai concetti.
La cosa che mi fa sorridere è che ad alcuni live ho sentito anche la gente cantare e questo mi ha fatto molto ridere, non me lo aspettavo. Si tratta sicuramente di suoni comprensibili e orecchiabili. Però non avrei mai pensato si sarebbe verificata una situazione del genere: si è trovato un equilibrio, un’armonia ed è capitato che le persone si abbandonassero alla musica, senza farsi domande. Non mi è capitato quasi mai che la gente mi chiedesse che cosa significassero i miei testi. E questo mi rende felice, perché sono stata capita e questo dà un senso a quello che ho fatto.
Il tuo album è un lavoro “di pancia” o di riflessione?
Ci sono entrambe le componenti, che appartengono a fasi diverse. L’istinto è presente nell’idea, perché ho sentito l’urgenza artistica ed espressiva di comunicare in questo modo per svincolarmi da qualsiasi limite che non mi permettesse di esprimermi musicalmente. Il mio primo bisogno è quindi stato quello di esprimermi emotivamente, prediligendo il trasporto emotivo dato dal suono, piuttosto che dai testi: sentivo il bisogno di rappresentarmi come musicista, piuttosto che come cantautrice. Ho sentito la necessità di abbandonarmi a un flusso creativo istintivo, quasi incosciente. Superati i due anni di lavoro poi ovviamente ci sono stati dei ragionamenti, delle riflessioni, un percorso di cura dei testi che è stato necessario per dare forma al disco.
Con Iosonouncane condividi la terra natale, il “percepirsi in vita”, come racconta lui in un’intervista. Che ruolo ha avuto la tua terra nella stesura di questo disco?
La mia terra la sento fortissima. Non ce lo siamo mai detti, ma nel portare avanti questo lavoro insieme ha giocato anche molto il fatto di provenire dallo stesso posto. Abbiamo una percezione comune di tante cose, che è stata una grande fortuna perché non è scontato che due vite – anche molto diverse – possano lavorare insieme per così tanto tempo. Sai, nella vita ti capita di tutto: cambiano le cose, cambiamo noi, cambia quello che ci sta intorno e il tempo in cui è avvenuta questa collaborazione è stato perfetto per entrambi. Ho avuto la grande fortuna di collaborare con una testa musicale come la sua e sono grata che i nostri mondi si siano incontrati. Ci siamo completati a vicenda: io sono una musicista da live, provengo dall’improvvisazione e sono molto attaccata a quel modo di fare, mentre lui ragiona più da compositore e produttore. Abbiamo visioni distanti, ma complementari. Jacopo mi ha capita nel profondo, fin da subito e il suo modo di produrre si è sposato totalmente con le mie linee melodiche e con il mio modo di cantare. Questo lavoro non sarebbe stato così profondo, onesto e curato se non l’avessi fatto con lui.
Com’è stato lavorare a Spira?
Per ogni brano del disco ho fatto innumerevoli tentativi, sessioni su sessioni di Ableton che hanno poi portato al risultato finale. Il mio modo di scrivere poi somiglia tanto a quello di Jacopo ed è per questo che mi sono sempre sentita vicina a lui. Ho sempre scritto per sezioni, per paesaggi, al di fuori della forma standard della canzone. Lui quella struggle l’ha già vissuta, l’ha già compresa. Questo tipo di scrittura da un lato ti dà molta libertà, ma è molto faticosa, perché tra le tantissime opzioni possibili bisogna sceglierne una, solo una tra le tante possibilità che si aprono davanti. È stato faticoso dare una forma al progetto, ma anche bellissimo poter esplorare, capire, studiare insieme la via migliore da percorrere, al di fuori di giusto e sbagliato.