Mutazioni semanticheGli hospice, la storia degli ospedali dove non si entra per guarire

Era stata la francese Jeanne Garnier, giovane e ricca vedova, a scegliere di consacrarsi all’assistenza delle donne inguaribili per accompagnarle fino alla morte, dapprima accogliendole in casa e nel 1843, con le sue Dames du Calvaire, aprendo a Lione la prima struttura per malati senza speranza

(Unsplash)

La triste vicenda di Indi Gregory ha fatto risuonare nelle nostre orecchie una parola inglese, un po’ ingannevole, in circolo da qualche anno anche in Italia: si tratta di hospice, il nome con cui si designano le strutture come quella dove la sfortunata bambina ha trascorso le ultime ore della sua breve vita, dopo esservi stata trasferita dall’ospedale di Nottingham nel quale era nata e dal quale in otto mesi non era mai uscita. Hospital e hospice hanno in comune la radice – il latino hospes, ossia ospite, nel duplice senso di ospitato e ospitante – ma l’hospice, come ormai abbiamo imparato, non è un ospedale dove si entra per guarire: dietro il suono evocativo di antiche sollecitudini ospitali, la parola edulcora la realtà di un luogo terribilmente caritatevole, e caritatevolmente terribile.

Per comprendere come si sia arrivati a consolidare questa mutazione semantica bisogna ripercorrere la storia del vocabolo: a partire dalle sue origini nell’antica Roma, dove hospitium significava propriamente «ospitalità come relazione tra due ospiti (tra colui che riceve e colui che concede ospitalità)» e per metonimia «albergo, alloggio, quartiere, appartamento, camera per gli ospiti» (dizionario Georges-Calonghi). Nei primi secoli della cristianità hospitia erano in particolare gli edifici destinati a ospitare i pellegrini diretti a Roma o in Terrasanta, come quello fondato nel IV secolo dalla matrona romana Fabiola a Portus, alla foce del Tevere.

Il significato di istituto di accoglienza temporanea per forestieri, per lo più gestito da religiosi, si è conservato nell’italiano ospizio, da cui si è differenziata l’accezione più specifica di luogo di ricovero per i poveri e in particolare per gli anziani bisognosi di assistenza. Anche l’inglese hospice, che è un prestito dal francese e di cui l’Oxford English Dictionary ravvisa le prime occorrenze nel 1818 nello scozzese Blackwood’s Magazine, aveva in origine il significato di casa di sosta per viandanti, per precisarsi meglio verso la fine dell’Ottocento in quello di un luogo dove le suore si prendevano cura degli anziani indigenti prossimi alla fine. Ma già nella prima metà di quel secolo il senso aveva iniziato a specializzarsi.

Era stata la francese Jeanne Garnier, giovane e ricca vedova, a scegliere di consacrarsi all’assistenza delle donne inguaribili per accompagnarle fino alla morte, dapprima accogliendole in casa e nel 1843, con le sue Dames du Calvaire, aprendo a Lione il primo hospice per malati senza speranza – anche se va ricordato che una forma pionieristica di questa pia attività era già stata sperimentata, a cavallo tra Sette e Ottocento, nell’ospedale Hundertsuppe di Norimberga.

Con l’hospice du Calvaire, la strada (semantica) era segnata. Lo stesso termine venne ripreso dalle Religious Sisters of Charity che nel 1879 aprirono a Dublino l’Our Lady’s Hospice for the Dying, e nel 1905, a Londra, il St Joseph’s Hospice. È però soltanto dalla seconda metà del Novecento che la parola ha assunto il valore oggi più riconosciuto.

Il merito, in questo caso, è di una intraprendente signora inglese, Dame Cicely Saunders. Reduce dall’esperienza maturata fin dal 1945 come infermiera e assistente sociale dei malati terminali al Royal Cancer Hospital di Londra (oggi Royal Marsden Hospital, dal nome del medico che lo aveva fondato nel 1851), aveva sviluppato un approccio olistico nel trattamento della sofferenza non solo fisica di questi soggetti. Dopo essersi laureata in medicina e avere portato il dibattito sulle sue idee oltreoceano, con una memorabile conferenza a Yale, nel 1967 aprì nel sud di Londra il St. Christopher’s Hospice, la prima struttura al mondo dedicata al controllo del dolore e alle cure compassionevoli dei pazienti senza speranza di guarigione.

Era la nascita dell’hospice movement, che da quel momento cominciò a diffondersi, dapprima negli Stati Uniti e in Gran Bretagna e quindi nel resto del mondo. Ma era anche il suggello della nuova accezione della parola, quale era venuta definendosi nel mondo anglofono. Così che quando il primo Centro di Cure Palliative aprì in Italia, alla Domus Salutis di Brescia nel 1987, non esisteva un termine adatto per tradurla.

“Ospizio” aveva mantenuto il significato tradizionale, per di più sviluppando nell’uso una connotazione negativa che ha indotto a sostituirlo con parole più neutre come “pensionato” o “casa di riposo”. Dopo qualche tentativo perifrastico di rendere l’idea della nuova realtà assistenziale («la prima “casa” italiana della “buona morte”» si leggeva per esempio in un articolo su Stampa Sera del 17 aprile ’89), e in conseguenza del suo successivo radicamento nel nostro Paese, anche qui ha preso a circolare sempre più disinvoltamente la parola inglese, che oltretutto al nostro orecchio ha il pregio di un certo potere eufemistico ed è ormai accolta dalla maggior parte dei vocabolari. Un ennesimo prestito: ma non è, questa volta, un effetto della consueta – spesso gratuita, non di rado ridicola – sudditanza esterofila, bensì testimonianza della dinamicità della lingua in un mondo sempre più interconnesso.

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