Embargo contro Israele. Cinquant’anni fa, di questi giorni, i Paesi arabi – nel pieno della guerra del Kippur di Egitto e Siria contro Israele, quando questi stava per vincere e travolgerli – sganciarono la “bomba atomica nera”, chiusero i pozzi di petrolio e lasciarono il pianeta a secco. Uno choc epocale: il Brent passò da due a undici dollari al barile. Un aumento di più del cinquecento per cento. Ariél Sharon, che era con le sue colonne di carri armati alle porte del Cairo, indifeso, si dovette fermare e fu costretto a tornare indietro. La solidarietà araba si impose su un Occidente attonito e a piedi, con i serbatoi a secco. Israele, a un passo da una vittoria epocale, definitiva, si dovette ritirare. Il pianeta scoprì la forza di una solidarietà araba che aveva strozzato la sua giugulare energetica, il petrolio.
Sabato scorso, a Ryad, nella riunione di tutti i Paesi islamici e arabi – un inedito di valenza storica – più della metà dei Paesi arabi si è unita all’Iran degli ayatollah per ritentare il colpo, in piccolo, in molto piccolo: un embargo petrolifero e energetico contro Israele. Dunque, la fine della collaborazione metanifera tra Il Cairo e Gerusalemme. Questi Paesi arabi oltranzisti – tutti, non a caso filorussi, Algeria e Siria in testa – hanno anche chiesto la rottura dei rapporti diplomatici con Gerusalemme dei sei Paesi arabi che hanno riconosciuto il diritto a esistere della “entità sionista”.
Nulla di fatto, i Paesi arabi e islamici oltranzisti, sono finiti in minoranza. L’aria è cambiata. Il blocco di alleanze di Paesi intenzionati a non rompere affatto con Israele, costruito dall’Arabia Saudita, si è imposto nel consesso internazionale più ostile allo Stato degli ebrei che si possa immaginare.
Seguendo una tipica tradizione araba, la prima “storica” riunione tra Lega Araba e Organizzazione della Cooperazione Islamica, si è limitata quindi a una più che virulenta sequenza di invettive contro «i crimini di guerra israeliani», a un mafioso «baciamo le mani ad Hamas» del presidente iraniano Ebrahim Raisi, e a un sostanziale nulla di fatto quanto a ritorsioni. Il tutto si è risolto con un embargo delle armi dai Paesi arabi a Israele – ma in realtà è Israele che le vende a loro, non il contrario – e una platonica richiesta alla Corte Penale Internazionale a sanzionare i crimini israeliani.
Nel consesso ha dominato l’evidente disinteresse arabo sostanziale nei confronti della questione palestinese sulla quale non si è neanche trovato un accordo di facciata. La riunione sul tema si è spaccata in tre. Ebrahim Raisi ha caldeggiato la «scomparsa di Israele dalla faccia della terra». I sei Paesi arabi che hanno riconosciuto Israele non hanno nessuna intenzione di tornare indietro, anche se hanno rivolto accuse feroci per i crimini di guerra compiuti a Gaza e infine gli altri Paesi attendono di capire la posizione dell’Arabia Saudita. Posizione che è emersa con chiarezza, seppure in sottofondo.
Mohammed bin Salman è di fatto ben contento della piena sconfitta di Hamas a Gaza, attende compiaciuto che Israele faccia il lavoro sporco, e aspetta che passi la tempesta per riprendere e concludere la trattativa per l’accordo triangolare strategico con gli Stati Uniti e Gerusalemme che la crisi di Gaza ha solo sospeso.
Ennesima conferma di una frattura radicale nel mondo islamico e di una polarizzazione antagonista assoluta tra le strategie di Ryad e quelle di Teheran. Il tutto, però, in un contesto inedito, segnato dall’emergere del ruolo primario e assolutamente innovativo acquisito da Mohammed bin Salman. Ha avuto infatti pieno riscontro e successo la sua nuova strategia “di Westfalia”: la ricerca di soluzioni algebriche, ricomponibili con le trattative, e non jihadiste alle fortissime tensioni con l’Iran.
Con la riunione di Ryad, Mohammed bin Salman ha dunque inaugurato un tavolo comune, un luogo, una istituzione in cui, se possibile, stemperare le tensioni inter-islamiche e inter-arabe. Una novità di assoluto rilievo dopo più di dieci anni di guerre per interposta persona sui vari scacchieri tra Arabia Saudita e Iran. Il Medio Oriente è cambiato.