La scorsa settimana, a Singapore, sono stati elencati i migliori cinquanta bar del mondo: era la prima volta che la serata di gala dei World’s 50 Best Bars si teneva in Asia, dopo dodici edizioni a Londra e quella del 2022 a Barcellona. In lista erano rappresentati tutti i continenti del pianeta (se si considera la “pre-graduatoria”, dalla posizione numero cento alla cinquantuno, che come di consueto ha anticipato la premiazione), e al primo posto si è piazzato il Sips di Barcellona, gioiellino avanguardista del quartiere Eixample.
I titoli dedicati alla manifestazione hanno quasi in coro gridato al «trionfo dell’Italia»: uno dei due soci proprietari di Sips è infatti il comasco Simone Caporale, autentico gigante del settore, il primo bartender di sempre ad arrivare sul tetto del mondo alla guida di due locali diversi, dato che era già stato al primo posto con l’Artesian Bar del Langham Hotel di Londra (insieme all’allora collega Alex Kratena) addirittura per quattro anni consecutivi nell’arco 2012-2015. L’Artesian oggi è guidato dalla campana Giulia Cuccurullo.
I vari Giacomo Giannotti (Paradiso Barcellona), Ago Perrone, Giorgio Bargiani, Maura Milia (Connaught Londra) e una lunga sequela di altri talentuosissimi connazionali hanno poi costellato la classifica, ciascuno a egregia difesa di banconi esteri. I bar italiani in lista sono stati cinque, nessuno meglio piazzato del Drink Kong di Patrick Pistolesi, a Roma, al numero ventuno; l’altro capitolino, Freni e Frizioni, ha celebrato un roboante esordio in graduatoria al trentatreesimo posto, seguito da 1930 (Milano, quarantaduesimo), L’Antiquario (Napoli, quarantaquattresimo) e Locale (Firenze, quarantaseiesimo). Il Camparino in Galleria (Milano) si è classificato ottantacinquesimo.
Al di là del significato della classifica di per sé, che può lasciare il tempo che trova ma rimane un importantissimo motore del mercato, lo scenario descritto dai 50 Best per l’Italia racconta dettagli ben più profondi dei meri numeri. A cominciare dalla vetta: è sbagliato dire che «c’è un po’ d’Italia al primo posto», perché escluso il passaporto, ben poco di italiano c’è nella cultura del bar, nella professionalità, nell’esperienza e nell’etica del bancone che hanno portato Caporale dov’è (Simone non lavora in Italia da vent’anni) e che sono semplicemente aliene. Lo stesso dicasi per i connazionali stabili all’estero e già citati, che peraltro seguono le orme di generazioni di osti perfetti e celebri nel mondo.
Il bar italiano è, oggi come negli ultimi cinquant’anni almeno, martoriato da una consapevolezza della miscelazione e del consumo di alcolici decisamente bassa, cui si aggiungono elementi già piuttosto noti: il vino sempre protagonista, cocktail e distillati ancora visti come strumenti di perdizione, pessima se non inesistente divulgazione del settore. La professione al bar è ancora vista come un ripiego e non una carriera, manca formazione per il personale (ma a sua volta il personale pensa di non doversi formare), i bartender aprono locali per bartender; siamo in uno dei Paesi, viste anche le implicazioni burocratiche che comporta, in cui investire nel bar di qualità e professarla e più difficile in assoluto.
Tutto questo, quindi, in realtà ingigantisce il risultato dei bar nostrani, e questo è il secondo, importantissimo punto: pur non essendo riusciti a scalfire la top twenty (Drink Kong ha perso un pugno di gradini, dal sedicesimo dello scorso anno), i locali italiani hanno ottenuto i riconoscimenti in graduatoria combattendo con il mercato italiano stesso, paradossalmente. Perché si può discutere all’infinito del valore dei 50 Best, dato che nel corso degli anni, ai piani altissimi, si sono lette insegne poi finite nel dimenticatoio all’edizione successiva; ma al netto di doverose eccezioni (leggasi autentici scandali), figurare tra i migliori del mondo non è cosa da ridere.
Cinque-più-uno bar italiani hanno suscitato l’interesse della lista di riferimento globale per il settore. Sono approdati al gotha faticando contro l’insensata corsa a ostacoli che questo Paese pone dinnanzi a chiunque voglia buttarsi nel settore, sia per formalità e burocrazia, che per retaggio storico e clientela ostica. Lo hanno fatto, peraltro, ciascuno a proprio modo: futuristici e punk, speakeasy e bar classici, palazzi storici e salotti da sciure, a dimostrazione, in ogni caso, di una certa varietà di approccio. L’Italia del bar non ha vinto perché un italiano è arrivato primo (assieme al suo team, sia chiaro) o altri azzurri si sono classificati con eccellenza: ha trionfato perché ha battuto sé stessa, e considerando quanta strada ancora c’è da fare, è un segnale di incredibile importanza.