È paradossale che sia proprio Elly Schlein a dimenticarsi delle primarie, lei che alle primarie deve la leadership del Partito democratico: infatti nei circoli aveva perso. Ancor più strano che questo avvenga nella fase più movimentista e di piazza del nuovo corso del suo partito. Anche se la manifestazione di sabato a Roma non sembra aver spostato i sondaggi in meglio (secondo l’ultimo Swg il Pd è tornato sotto la soglia psicologica del venti per cento), il bagno di folla è senz’altro servito quantomeno a tirare su il morale della truppa.
Tutto dovrebbe dunque suggerire a un partito percepito come freddo di mescolarsi con un popolo più largo secondo l’intuizione che fu alla base dell’Ulivo e sposata poi in pieno dai vari leader del Pd, anche dai più professionisti, proprio perché ogni volta la spinta delle primarie ha vitalizzato la lotta politica con gran guadagno della partecipazione e del Pd stesso. E questo a maggior ragione quando si tratta di scegliere il candidato presidente di Regione o il candidato sindaco: colui che vince le primarie parte già con una spinta forte dal basso.
È vero che quando si è in una coalizione le primarie non si possono imporre agli alleati, ma nulla vieta che il Pd in quanto tale organizzi una forma di consultazione aperta sui nomi possibili da candidare. Invece qui si torna all’antico, come ha detto ad Huffington Post Arturo Parisi, l’inventore delle primarie, a proposito della sua Sardegna: «Si poteva promuovere un confronto alla luce del sole tra candidati portatori di programmi alternativi attraverso lo stesso metodo delle primarie che appena in febbraio aveva governato la competizione per la scelta del Segretario Nazionale e di quello Regionale. Invece si è preferito rappresentare il confronto tra Pd e M5S come uno scambio tra posti tra le diverse regioni e caselle, a somiglianza di quello che fa da sempre anche se sempre peggio il centro-destra».
Oppure, aggiungiamo, come accadeva nella Prima Repubblica, per cui Milano spettava al Psi e Roma alla Dc: solo che a quei tempi i partiti davvero erano l’alfa e l’omega della politica. Sulla Sardegna si è fatto come allora, si è deciso a Roma di candidare la contiana Alessandra Todde senza che il Pd battesse ciglio e provocando la reazione di Renato Soru che visto lo spettacolo è sceso in campo da solo, verosimilmente sarà una spina nel fianco di Todde. Ora come ha notato David Allegranti la stessa cosa pare ripetersi a Firenze. Finita per fortuna nel nulla l’ipotesi di una candidatura di Tomaso Montanari avanzata sul filo della provocazione da Giuseppe Conte, adesso il Pd fiorentino è alla ricerca di un nome in grado di succedere a Dario Nardella.
In un documento di due giorni fa il gruppo dirigente dem fiorentino ha deciso che «la direzione dà mandato al Segretario cittadino – con un gruppo di lavoro plurale e inclusivo – di verificare la possibilità di un percorso largamente condiviso attorno a un nome forte e autorevole di un/una candidata/o Sindaco/a». Dunque, se non capiamo male, «un gruppo di lavoro» deve trovare un nome ma non si dice che esso verrà poi sottoposto alle primarie. Si vedrà.
Resta ignoto il motivo per il quale questo strumento stia progressivamente perdendo forza proprio mentre un certo spirito girotondino sembra pervadere il Nazareno dopo anni di professionismo della politica che ha portato dove ha portato, a un segretario scappato e a un altro distrutto.
Si potrebbe capire se le primarie venissero abbandonate per la nomina del segretario, constatato che gli iscritti che avevano preferito Stefano Bonaccini sono stati di fatto delegittimati dalla consultazione popolare creando un precedente che deve far riflettere, Ma il fatto che Schlein e Conte si mettano d’accordo a Roma può stare a indicare che i due si sono convinti che questo matrimonio s’ha da fare, avviluppato nella logica della spartizione e nelle spire immarcescibili del potere. Con tanti saluti al popolo.