Pentole e tiranni Un libro racconta il rapporto tra i dittatori e i loro cuochi

Cosa mangiavano Saddam Hussein, Idi Amin, Enver Hoxha, Fidel Castro, Pol Pot? Nel suo “Come sfamare un dittatore” (Keller Editore) Witold Szabłowski riporta i racconti dei cuochi di cinque dittatori al potere fra ventesimo e ventunesimo secolo

Fidel Castro, Havana, 1960 @Associated Press/LaPresse

«Prendi alcuni fagioli lunghi, una patata dolce, dei pezzi di zucca, zucchina, melone, ananas, aglio, un po’ di carne di pollo o di manzo, e due o tre uova. Puoi aggiungere un pomodoro e una radice di loto. Metti a bollire il pollo, poi unisci lo zucchero, il sale e le verdure. Fai cuocere più o meno mezz’ora. Alla fine puoi aromatizzarla con la radice di tamarindo». E la zuppa agrodolce, la più diffusa in Cambogia, è pronta.

A illustrare la ricetta è Yong Moeun, per molti anni cuoca e confidente di Pol Pot, il dittatore cambogiano, che lei ricorda con un misto di tenerezza e ammirazione mentre parla con Witold Szabłowski, l’autore di “Come sfamare un dittatore”. Un incredibile reportage (pubblicato da Keller Editore) attraverso quattro continenti, dall’Iraq al Kenya, da L’Avana a Baghdad, dalla Cambogia all’Uganda e all’Albania per raccogliere i racconti dei cuochi di cinque dittatori al potere fra ventesimo e ventunesimo secolo: l’iracheno Saddam Hussein, l’ugandese Idi Amin, l’albanese Enver Hoxha, il cubano Fidel Castro e il cambogiano Pol Pot.

Il risultato è una raccolta di storie sui rapporti, a volte difficili a volte amichevoli, fra il capo assoluto e chi doveva occuparsi della sua tavola. Storie di privilegi e di paure, ricordi di un lavoro in cui un solo errore avrebbe potuto essere fatale, ma anche una rassegna di piatti e di ricette capaci di aprire una finestra su cucine, ingredienti e gusti lontani da noi e dalle nostre tradizioni.

La zuppa agrodolce di Pol Pot
Torniamo allora a Yong Moeun e al suo debutto nella cucina di Pol Pot. «In realtà – racconta – quando preparai per la prima volta la zuppa agrodolce, Pol Pot la lasciò lì». Lui la preferiva alla thailandese, con gamberetti essiccati, o in alternativa con pasta di pesce e arachidi. La giovane cuoca però se la cavò ugualmente. Nel suo repertorio figuravano altre ricette, come l’insalata di mango, pollo e pesce arrostiti, o come l’insalata di papaia, con cetrioli, pomodori, fagiolini, spinaci d’acqua, aglio e un po’ di succo di limone.

Allora – ricorda – Pol Pot veniva ancora chiamato dai compagni Fratello Pouk, che in lingua khmer significa materasso, perché «era morbido come un materasso, e in questo stava la sua forza. Quando gli altri litigavano, lui si posizionava in mezzo e li aiutava a trovare un punto d’incontro. È vero. Anche il suo sorriso era mite. Pol Pot era la bontà in persona». Un ricordo neppure scalfito dagli anni di un regime violento, durante il quale è stato calcolato che un cambogiano su quattro perse la vita.

Il giusto sale per Saddam
Da un continente all’altro, da una zuppa all’altra. Saddam Hussein la chiamava “zuppa di pesce alla ladrona”, perché pare che inizialmente la cucinassero i ladri delle sue parti. Andrebbe fatta con un pesce molto grasso, il luciobarbus, però si può prepararla anche con il salmone o con la carpa.

«Per prima cosa tagli il pesce a cubetti di un paio di centimetri e li passi nella farina. Sul fondo del tegame metti la cipolla e un poco di olio. Soffriggi leggermente, dopo di che disponi un primo strato di pesce. Cospargi di prezzemolo tritato. Ricopri con uno strato di pomodori, seguito da uno strato di albicocche secche. Poi ancora pomodori. Il pesce. Le mandorle. Di nuovo il pesce. E così via. Stendi gli strati come ti pare, l’importante è che la cipolla si trovi sul fondo. E che nella zuppa ci siano aglio, prezzemolo, mandorle, albicocche e pomodori. Puoi aggiungere anche una manciata di uva sultanina. Aspetti che il pesce e le verdure rilascino la loro acqua. Non appena senti il sibilo che indica che il liquido si è asciugato, versi acqua bollente fino a ricoprire lo strato più alto. Lasci sobbollire per quindici o venti minuti. Alla fine puoi insaporire con un pizzico di curcuma». Parola di Abu Alì, unico ancora vivo dei sei cuochi di Saddam Hussein.

Con questa ricetta la preparava e la presentava al dittatore iracheno, ma – assicura – non si sapeva mai come sarebbe andata a finire.  Se era di cattivo umore e in più il cibo non gli piaceva, poteva esigere che restituissimo al tesoriere i soldi spesi per l’acquisto della carne o del pesce. «Mi capitò un sacco di volte. Mettiamo caso: mangiava una cosa, la trovava troppo salata, quindi mi mandava a chiamare e sbraitava: “Per la miseria, Abu Alì, come si fa a mettere tutto quel sale nel tikka?” Oppure nell’omelette, o nella zuppa di gombo che era una delle sue preferite. O in qualunque altro piatto. Pretendeva spiegazioni riguardo al sale ma, prima che facessi in tempo ad aprire la bocca, buttava lì furibondo: “Me lo devi risarcire. Kamil, assicurati che Abu Alì restituisca cinquanta dinari!”. Qualche giorno dopo – continua –, sbollito il malumore, Saddam, che si ricordava sempre di avermi defalcato una somma dalla paga, diceva: “Oggi il nostro caro Abu Alì ha preparato un’ottima zuppa di lenticchie. Ha messo esattamente tanto sale quanto serviva. Ridagli i soldi che hai preso da lui l’ultima volta, anzi aggiungine cinquanta”. In realtà la nuova zuppa poteva non avere niente di diverso da quella incriminata, ma Saddam era fatto così».

Amin e la capra arrosto
Oggi Otonde Odera ha l’aspetto di un patriarca. Un tempo le sue lunghissime dita erano solite affettare carne e pesce per Idi Amin, il sanguinario dittatore ugandese. Di lui si dice che mangiava carne umana. Così la domanda diventa inevitabile. E Odera se l’aspettava.

Un lungo respiro e la risposta: «Giuro su Dio che non ho mai assistito a nulla del genere. Certo, ho sentito la gente che ne parlava. Molte volte mi hanno chiesto se cucinavo carne umana per lui. La risposta è no. Non è mai successo. Nei congelatori e nelle celle frigorifere affidati alla mia custodia non ho mai visto carne la cui provenienza mi fosse ignota o che non avessi comprato io stesso. I soldati non hanno mai consegnato carne la cui origine non mi fosse nota. E della spesa mi occupavo soltanto io». Perché in quegli anni Odera era una potenza. Il budget annuale destinato alla cucina ammontava a otto milioni di scellini e lui ne era totalmente responsabile. Non per niente aveva lo stipendio più alto dell’intera amministrazione.

Otonde Odera veniva dal Kenia. Era di etnia iuo. La matriarca della sua tribù era Mama Sarah Obama, una filantropa quasi centenaria, nota per le sue battaglie contro l’Aids e per le raccolte di fondi destinati all’istruzione dei bambini dei villaggi della zona. Quello dove viveva Mama Sarah si chiama Kogelo, a pochi passi dalla casa del cuoco. Da qui partì Barack Obama senior per andare a studiare negli Stati Uniti. E da qui partì il cuoco di due presidenti Ugandesi: Milton Obote e Idi Amin, all’inizio alleati, poi nemici.

«Alcuni anni dopo il golpe congiunto – racconta Odera – i rapporti tra Obote e Amin si erano fatti molto tesi. Il presidente sospettava che il generale avesse organizzato una rivolta». E in effetti… «Riesci a immaginarti che cosa sarebbe successo se, dopo aver trascorso l’intera giornata a fare il golpe, Amin fosse arrivato al palazzo e non avesse trovato la cena pronta. Quel giorno avevo preparato la tilapia e il pilaf di capretto. Ricordavo che piacevano ad Amin. Li servimmo su una tavola apparecchiata con le posate d’argento che Obote aveva ereditato dagli inglesi». Così Odera continuò a cucinare anche per Amin.

Una delle sue specialità era la capra intera arrosto: «Le tagliavamo la barba – ricorda – toglievamo le interiora, l’imbottivamo di riso, patate, carote, prezzemolo, piselli e un po’ di spezie. Ovviamente tutto questo era mescolato con la carne della capra tagliata a pezzetti. Dopo averla cotta nel forno la pitturavamo e le incollavamo di nuovo la sua barba. L’animale entrava a tavola in piedi, cioè poggiato sulle sue quattro zampe. Pareva vivo. I commensali sgranavano gli occhi alla vista di una capra che sembrava arrivare direttamente dal pascolo, ma che un istante dopo si poteva mangiare».

Il momento d’oro finì quando qualcuno raccontò al dittatore che Odera voleva avvelenarlo. Il cuoco fu portato nelle segrete sul lago Vittoria e gettato in mezzo ai galeotti. Da lì non si usciva. Nel Paese di Idi Amin lo sapevano anche i muri. Invece non si sa per quale motivo il presidente si limitò a espellerlo dall’Uganda, rimandandolo in Kenia. Poi, nel maggio del 1980, cacciato Amin, Obote tornò a Kampala e mandò a richiamare il suo vecchio cuoco. E Odera riprese le sue mansioni.

Una dieta salutare per Enver Hoxha
A distanza di tanti anni ha ancora paura. Teme di essere seguito e osservato. Per questo non vuole che il suo nome venga pubblicato. Oggi il signor K. gestisce insieme alla moglie un piccolo albergo con ristorante in un quartiere malridotto di una località balneare albanese e non c’è niente che desideri di più al mondo che vivere in santa pace dopo i tanti anni passati a cucinare per Enver Hoxha, l’onnipotente padrone dell’Albania.

«Come sono finito a cucinare per il compagno Enver? Non ne ho idea. Facevo il cuoco in un cantiere edile al servizio di alcuni ingegneri italiani, finché un giorno mi si pararono davanti due soldati. Mi dissero di preparare i bagagli, perché mi portavano a Valona per lavorare». Così il signor K. si ritrovò in una villa immensa, a picco sul mare, fra palmizi e uliveti, con una bellissima vista sulla baia e sulle montagne: la casa di villeggiatura di Enver Hoxha. Il capo della sicurezza di Hoxha gli spiega che per alcune settimane lavorerà lì. Gli tremarono le gambe, ma ancora non sapeva quanto sarebbe stato difficile accontentare non tanto il dittatore quanto i suoi medici.

Hoxha aveva problemi di salute e ogni settimana il cuoco doveva partecipare alle consultazioni mediche. Fra il signor K. e il dittatore non c’erano contatti diretti. Lo vedeva solo da lontano, ma evidentemente era soddisfatto del suo lavoro. Tanto che, finite le vacanze, lo portò a Tirana e lo tenne al suo servizio per anni.

I dottori sottolineavano sempre l’importanza di una dieta appropriata. Gli dicevano che la salute di Hoxha dipendeva dal suo lavoro. «E io – ricorda – sapevo che dalla salute di Hoxha dipendeva la mia vita. Se fosse morto, avrebbero detto: il cuoco non è stato attento alla sua dieta. Ci sarebbero stati un processo, una sentenza, forse persino una condanna a morte». Durante le consultazioni – spiega – i dottori stabilivano la quantità esatta di calcio, potassio, delle vitamine e delle altre sostanze che Hoxha doveva assumere, ma era incredibilmente difficile riuscire a contenere in milleduecento calorie giornaliere tutto ciò di cui aveva bisogno l’organismo di un uomo nel pieno vigore degli anni, con un fisico notevole, alto un metro e ottantaquattro e che lavorava duramente ogni giorno.

Di solito il signor K. a colazione gli serviva un pezzo di formaggio con la marmellata. A pranzo una minestra di verdure, ma preparata senza brodo di carne che non gli era permesso e, come secondo, una fettina di vitello o di agnello, oppure pesce. Per dessert: frutta poco dolce, come mele e susine aspre. A cena: una porzione di yogurt. Quasi non mangiava pane.

«Quando però lo vedevo passare per il corridoio senza rispondere ai saluti né rivolgere lo sguardo a nessuno – racconta il cuoco – capivo che era di pessimo umore e che ci voleva qualcosa di speciale. E allora preparavo un dolce. Naturalmente al posto dello zucchero usavo un dolcificante per diabetici, ne mettevo poco e solo dopo essermi consultato con la sua infermiera. Ma sapevo che in giornate così, ciò di cui Hoxha aveva bisogno era qualcosa di dolce, e che sarebbe stato meglio per tutti, per tutto il Paese, se si fosse mangiato un bel dessert».

Hoxha apprezzava particolarmente lo sheqerpare, che il signor K. preparava così: «Per l’impasto ci vogliono tre bicchieri di farina, mezzo panetto di burro, tre uova, un bicchiere di zucchero, polvere lievitante per dolci e una bustina di zucchero vanigliato. Se vuoi farlo come lo mangiava Hoxha, devi sostituire lo zucchero con lo xilitolo. Per lo sciroppo avrai bisogno di altri due bicchieri di zucchero, mezzo bicchiere di acqua e vanillina. Sciogli il burro in una padella e versa sopra lo zucchero. Aggiungi le uova, lo zucchero vanigliato e la farina. Mescola fino a ottenere un denso composto di colore giallo. Forma delle palline, disponile su una teglia e inforna a 180°C per venti minuti. Togli quando cominciano a indorarsi. Passiamo allo sciroppo. Metti in un pentolino lo zucchero, la vaniglia e mezzo bicchiere d’acqua. Porta a ebollizione e versa sui dolcetti sfornati. Sono deliziosi serviti con pezzi di frutta e panna montata. Ma questo per Hoxha era off limits». Enver Hoxha morì nel 1985.

Ceviche, il preferito di Fidel
Erasmo Hernandez era di Santa Clara e quando Castro e i suoi uomini si avvicinarono alla città li raggiunse sulla Sierra. Aveva sedici anni e incontrò subito Che Guevara, il suo comandante. Così fece in tempo a partecipare alla battaglia di Santa Clara, che aprì la strada per L’Avana e per la vittoria della rivoluzione.

Oggi Erasmo ha un ristorante: il Mama Ines, all’interno di un palazzo coloniale elegantemente ristrutturato. Lì si possono mangiare piatti tradizionali o raffinati, ma allora, in marcia con il Che, ci si arrangiava: «Si mangiava quello che c’era, per lo più l’ajiaco, tipica zuppa cubana. Prendi salsiccia, pancetta, pollo o una testa di maiale, insomma qualsiasi cosa con cui si può preparare il brodo. Quando è pronto, aggiungi fagioli, mais, patate, riso, pomodori: tutto ciò che hai sottomano. Ci puoi mettere anche pesce o frutti di mare, ma in montagna avevamo il pesce molto di rado, per non parlare di gamberi o aragoste. Getti tutto nel pentolone con il brodo e fai cuocere a fuoco basso per una mezzora. È una zuppa squisita, e in più nutriente, quindi perfetta per i soldati». E per il Che, che mangiava tutto quello che mangiavano gli altri. Non faceva lo schizzinoso. L’unica cosa che lo distingueva era la sua passione per i fagioli neri. Era capace di mangiarsene un’intera ciotola in una volta sola.

Arrivati all’Avana Erasmo è fra i guardaspalle del Che, ma anche Fidel Castro ha bisogno di qualche giovane che si occupi della sua sicurezza e il Che gli cede Erasmo, di cui si fida ciecamente. Ed è allora che il giovanotto si accorge che fra i tanti che seguono Fidel nessuno si occupa del cibo. «Fu a me per primo – assicura – che venne da pensare che il nostro capo andava in giro con la pancia vuota». Così un giorno Erasmo si procura una pentola e qualcosa da metterci dentro. E prepara una zuppa. Fidel ne rimane contento. E la zuppa di Erasmo diventa un’abitudine. Per quattro anni. Fino a quando Celia Sánchez, amica e compagna di Castro fin dai giorni della Sierra Maestra, lo prese da parte e gli spiegò che tutto sommato di guardie del corpo Fidel poteva averne quante ne voleva, ma che un cuoco affidabile è difficile da trovare. «Devi andare a scuola». Ma per entrarci devi superare un esame.

«Mi ricordo – racconta Erasmo – di aver preparato un filetto di pesce con una salsa a base di mango, che mi valse il primo posto tra gli iscritti al test» e che a Fidel piaceva moltissimo.

Lui, che tutti chiamavano semplicemente El Jefe, era convinto di sapere ogni cosa meglio di chiunque altro: da come costruire il comunismo a come inseminare le vacche. «Lo faceva anche ai tempi dell’università. Un giorno andò a trovare un suo professore. Non era ancora entrato che già istruiva la domestica su come andavano fritte le banane. Diventato presidente, mangiava spesso all’Habana Libre, il miglior hotel della città. E anche lì si metteva a spiegare agli chef come andassero preparati l’aragosta, il confit d’anatra o il dentice del Nord, pesce molto diffuso a Cuba dove è chiamato pargo rojo».

Ecco allora la ricetta esclusiva di Fidel, raccolta dal dominicano Frei Betto. «Le aragoste e i gamberoni non si devono bollire, perché nell’acqua perdono sapore e si induriscono. Meglio cuocerli al forno o ai ferri. Per i gamberoni bastano cinque minuti alla griglia. Per l’aragosta, undici minuti al forno o sei ai ferri, sopra i tizzoni ardenti. Come condimento vanno usati soltanto il burro, l’aglio e il succo di limone. Il cibo buono è il cibo semplice».

Fidel adorava preparare personalmente le aragoste e i dentici. Lo faceva per lo più durante le famose gite di pesca, nel corso delle quali veniva servita la zuppa di tartarughe allevate appositamente per lui nei pressi della sua residenza di Cayo Piedra, dopo di che si piazzava davanti al barbecue e preparava la grigliata per gli ospiti. Ricevere pesce cucinato da Fidel era segno di massimo riconoscimento.

In realtà esiste anche un altro ex cuoco di Fidel Castro. Si chiama Flores e non ha aperto nessun ristorante, da quando è in pensione non se la passa affatto bene. Vive la sua vecchiaia in estrema indigenza e solitudine. Flores non è in grado di raccontare niente dall’inizio alla fine. Comincia una storia e perde il filo, ne comincia un’altra e lo perde di nuovo. L’unico elemento ricorrente è il suo grande amore per Fidel. Una cosa però la ricorda: quando Fidel «mi annunciò che avrebbe mangiato volentieri un’insalata di ciriole, che sono piccolissime anguille bianche, lunghe e molto sottili, simili a vermicelli; disse che in passato le aveva assaggiate in insalata e voleva che gliele trovassi, e che mi informassi su come preparare quel piatto, e sorrise, perché ormai mi conosceva abbastanza bene».

Non fu facile ma alla fine le ciriole si trovarono.  «Aggiunsi alle ciriole della lattuga, qualche pomodoro tagliato a pezzi, origano, prezzemolo tritato, cipolla e carote, ed ecco qua la sua insalata di ciriole bella e servita. Lui sapeva, lo sapeva benissimo, di poter sempre contare su di me; quando finì di mangiare sorrise, ma non disse niente, non ce n’era bisogno, bastava uno sguardo».

Ma torniamo a Erasmo. «Il problema maggiore con Fidel – dice – era che in guerriglia aveva imparato a mangiare negli orari più disparati. Non si riusciva a pianificare niente con lui. In pratica eri al lavoro a tutte le ore del giorno e della notte. Comunque c’erano anche lati positivi. Fidel non era tipo da lamentarsi, mangiava tutto quello che cucinavo».

«Mi chiedi che cosa mangiava Fidel a parte i latticini. Be’, mangiava poca carne, ma andava matto per le verdure, di ogni genere. E se decideva di mangiare carne, allora preferiva quella di agnello, al miele o al latte di cocco. Come si prepara? In un tegame metti l’agnello, la cipolla, l’aglio, i fagioli, una manciata di pepe nero, una foglia di alloro e copri con il vino. Uno qualunque, ma se è bianco è meglio. Puoi aggiungere anche un bicchiere di cognac. Porti a ebollizione e lasci cuocere per mezzora. Quindi metti a scaldare la salsa demi-glace. Quando comincia a bollire la insaporisci con una spolverata di noce moscata. Quando la carne è pronta, versi dentro il sugo e aggiungi il latte di cocco. Per finire condisci con sale e coriandolo. Gli piaceva anche il lechón asado, maialino nutrito solo con latte materno».

E per finire l’ultima proposta: «Possiamo preparare insieme il ceviche. Vuoi? Prendi un filetto di pesce, uno qualsiasi, basta che sia a carne bianca. Taglialo a dadini. Versaci sopra il succo di limone e un filo d’olio. Ricopri di cipolla lessata per insaporire e aromatizzare la pietanza. Aggiungi uno spicchio d’aglio schiacciato, un po’ di peperoncino, sale e pepe, lascia marinare in frigorifero per un quarto d’ora e il tuo ceviche è pronto». Come piaceva a Fidel.

“Come sfamare un dittatore”
di Witold Szabłowski
Collana “Razione K”, Keller Editore
320 pagine, € 18,50

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