Secondo numeri sviscerati da The Fork, nella prima metà del 2022 l’ospitalità italiana ha fatto registrare l’apertura di 3005 nuove attività, contro le 5173 cessazioni, per una “perdita” di 2168 insegne. A prescindere dal bilancio, si tratta di numeri impressionanti: nella sola Milano, stando a stime del Sole 24 Ore, nel 2019 (anno di frizzantezza tangibile per il settore) si era assistito a più di 365 nuove aperture, tra bar, ristoranti e locali di somministrazione. Significa un ritmo maggiore di una novità al giorno, e non serve certo un’analisi socio-economica approfondita per ritenere insostenibile questo andazzo (a quattro, impensabili anni di distanza è cambiato poco).
In primis per i locali stessi: la scia di eccitazione generata da una nuova apertura molto chiacchierata (quelli bravissimi la definirebbero hype) si esaurisce ormai nel giro di un paio di mesi, lasciando poi un alone di già visto, di ritrito, che fa quasi malinconia. Il boom di visite nei primi giorni, magari un buon rimbalzo sui social network perché altrimenti non si è nessuno, poi si torna nella media (quando non nella mediocrità).
È una rincorsa all’ultimo squillo di tromba, che gioca sulla smania di esserci che attanaglia il consumatore (soprattutto) milanese e si risolve nella esplosiva soddisfazione di un “interni caldi e accoglienti, cocktail sfiziosi e ben fatti”, che si tratti di recensioni o articoli di qualche pennaiolo prestato alle ormai troppe testate dedicate.
Pochi mesi e si è già vecchi. Peggio ancora, se possibile, il contrario: aperture (pompate o meno) che al primo, vero occhio esperto appaiono evidentemente raffazzonate, e si nascondono dietro oscenità del tipo “siamo ancora in fase di rodaggio”, “abbiamo deciso di aprire e vedere come va per questi primi tempi”. Per cui qualsiasi mancanza, di servizio o prodotto, finisce insabbiata in queste dune di giustificazioni: guarda caso però, i prezzi (in alcuni casi indecorosi) non subiscono alcuna riduzione nella fase di prima apertura.
Sia chiaro, avere un piano flessibile è sacrosanto, perché un’attività di pregio si nota anche dalla sua versatilità, a patto che l’identità del posto rimanga intatta (un cocktail bar può cambiare proposta di cibo o avere una fase sperimentale con qualche tecnica particolare, ma non può trasformarsi da speakeasy a tiki); ma tirare su la serranda e andare praticamente alla cieca è un po’ diverso.
Cosa che, peraltro, non potrebbe mai capitare all’estero, dove le licenze necessarie per aprire un locale di modeste dimensioni sono rigide oltre ogni limite (le principali, per un luogo di somministrazione a Londra, sono sette, senza contare le specificità relative a prodotto, orari, et similia) e il mercato è spietato: i famosi “pochi mesi per vedere come va” sarebbero automaticamente una pietra tombale, mentre in Italia, anche da un punto di vista meramente economico, è fin troppo facile allungare (dilazionare, per rimanere in tema) i tempi, e accrescere così la fuffa di cui c’è sproposito. In poche parole, al netto di riconoscere l’importanza sociale che un lavoro nell’ospitalità riveste: è troppo facile aprire.
E questa quasi totale assenza di barriere finisce con l’annacquare l’offerta, non la rende variegata come si è sempre sottolineato: varietà e qualità non sono sinonimi, anzi, c’è una linea sottilissima che le fa andare parallele e sta ormai scomparendo.
Restringendo il campo ai cocktail bar, la situazione si fa ulteriormente preoccupante: nel 2023, fare da bere continua a essere vista come un’occupazione basilare, “tanto cosa ci vuole”, retaggio di generazioni che hanno visto il bancone come lavoro per sfaccendati o galeotti, senza prospettive di futuribilità. Quelle poche nuove insegne che davvero puntano su un’ospitalità di alto livello (non necessariamente di lusso, anche i bar di quartiere di ultima generazione sono posti da cinque stelle), fatta di miscelazione ragionata e atmosfera conviviale per davvero, sono travolti da quegli indirizzi che spuntano come in una fungaia, che ancora gridano di Spritz a poco prezzo e abbuffate per aperitivo, senza un minimo di cura o ordine purché il cassetto si riempia e “poi si vede”.
Allora si guardi solo al meglio della classe, uno potrebbe pensare. E invece no: un’altissima percentuale di quelli che sono stati etichettati come “nuovo place to be” (sono tutti imperdibili, a detta dei professionisti) delle ultime annate, è in realtà composta da locali fotocopia, che si assomigliano tutti per colori, menu, addirittura linguaggio (sono tutti “pensati per sorprendere l’ospite”, “per riportare il cliente al centro”, “per farlo sentire a casa”). Investimenti oggettivamente importanti si riducono (non sempre, sia inteso) a mere destinazioni da passerella, dove sì, si vede e ci si fa vedere, ma poco di più. E la storia è testimone, durano poco: di quanti locali si potrà dire, tra vent’anni, che “è stato aperto nel 2023”?
Va da sé, non si può immaginare un mercato composto esclusivamente da proposte eccellenti: il problema non è tanto cosa sia alla fine buono o meno, quanto la miopia (degli imprenditori, o presunti tali, prima, e a cascata dei consumatori) circa quanto il settore dell’ospitalità soffra di un’abbondanza non necessaria. E a forza di espandersi, soprattutto se male, si finisce prima di tutto per non valorizzare chi lavora bene davvero. Poi, quasi sempre, per scoppiare.