Vita da bartenderPassione per professione

Se qualcuno ancora erroneamente lo considera un “passatempo” o un “lavoretto” giovanile, in realtà oggi stare dietro al bancone è un lavoro gratificante e una scelta di vita che può migliorare il carattere e portare al successo

Foto di Louis Hansel su Unsplash

La rivincita della mixology: la serietà dietro al bancone
Che sia un aperitivo o un after dinner, sedersi al bar e ordinare un cocktail è un rito, una coccola, il suggello di un momento di relax da condividere con altri o anche solo con sé stessi: un’occasione per evadere e concentrare tutto il proprio mondo nel bicchiere e nei pochi metri quadrati che lo circondano.

Eppure, dall’altra parte del bancone c’è qualcuno che prende la situazione molto sul serio: negli ultimi decenni l’attività del bartender ha infatti subito una profonda rivalutazione. Non si tratta di servire qualche drink dopo una giornata a preparare caffè e cappuccini, né di mixare distillati e sciroppi colorati seguendo una ricetta e facendo un po’ di show con acrobazie di bottiglie e giochi pirotecnici attorno al bicchiere.

Oggi il “barista” si fa “bartender”, una figura professionale che fa del bancone il proprio ufficio, laboratorio e palcoscenico. Non ci si arriva improvvisandosi, bensì attraverso un lungo percorso di formazione, studio e ricerca personale, che porta ad acquisire le conoscenze di base sulle quali costruire un proprio “stile miscelativo”: l’unico ingrediente realmente in grado di fare la differenza tra un “buon cocktail” e un “drink unico e indimenticabile”.

Vivere di sogni, liquidi ma “solidi”
In Italia, dove è forte una tradizione enogastronomica incentrata prevalentemente su cibo e vino, la figura del barman è rimasta a lungo oscurata da quelle di chef e sommelier. Eppure quella della miscelazione è divenuta nel tempo una vera e propria arte, che unisce competenze tecniche e creatività e che è sempre più richiesta nei ristoranti e negli hotel più ricercati di tutto il mondo. Il risultato è l’inaspettata trasformazione di un apparente “passatempo estivo giovanile” in una delle professioni più soddisfacenti e meglio remunerate tra quelle che non prevedono un percorso di studi universitario.

Infatti, a seconda del prestigio della location e del livello di esperienza conseguita, un barman professionista può guadagnare mediamente dai 1.200 ai 3.000 euro al mese, senza contare le mance che possono far raddoppiare lo stipendio a fine mese, e senza considerare il fatto che in alcune città (come Londra, New York, Miami, Las Vegas) dove questa figura è molto considerata, il guadagno sale fino a cifre da capogiro e il barman può ricavare anche mille euro a serata.

Una professione “alla moda”
Per rendersi conto di quanto stia crescendo l’attenzione (anche italiana) nei confronti dell’arte della miscelazione basta considerare i numeri (più di settemila visitatori) della seconda edizione di MIxology Experience, l’evento milanese dedicato al mondo della mixology e alla bar industry e pensato per far incontrare i principali stakeholders del settore, dai piccoli, medi e grandi brand (per un totale di 160 aziende), ai mixologist e a un pubblico sempre più interessato e qualificato rispetto a nuovi gusti e nuovi trend di questa branca particolare della ristorazione contemporanea.

Stesso successo di pubblico anche per la MIxology Week: sei giorni di eventi distribuiti in 45 prestigiose location del capoluogo lombardo e rivolti tanto agli “addetti ai lavori” quanto a un pubblico “profano” ma attento al correre veloce delle mode e interessato alle tendenze internazionali in fatto di drink.

Va da sé, quindi, che quella del mixologist si configuri come un’attività dinamica, fatta di costante ricerca e rinnovamento, capace di basarsi sul proprio istinto ma anche di porsi in ascolto delle richieste estemporanee del cliente ma anche dei trend che guidano il settore a livello globale.

Foto di Bon Vivant su Unsplash

Il boom del “low/no alcol” e del “green”
Tra le tendenze che caratterizzano il mercato attuale del “buon bere” c’è la predilezione per il “low/zero alcol”, che sta coinvolgendo sempre di più i consumatori (soprattutto sopra i venticinque anni, non più solo stranieri) spinti da ragioni salutiste o religiose. Infatti, al pari di quanto avviene nell’ambito del cibo, anche nel mondo del bere, i consumatori si dimostrano sempre più attenti alle conseguenze delle proprie scelte sulla salute, sia a quelle dirette, in termini di calorie e molecole ossidanti introdotte nell’organismo, sia a quelle indirette, in termini di violazione del codice stradale e della sicurezza al volante. In più, anche l’espansione del mercato della mixology in Paesi del mondo arabo ha reso necessario adattare le drink list anche a una clientela che non consuma alcol.

Pertanto, se fino a qualche anno fa il drink analcolico era considerato di secondo livello, oggi alla sezione “no alcol” della cocktail list è dedicata una sempre maggiore attenzione, grazie a molte aziende storiche che hanno deciso di investire nella crescente fetta di mercato dedicata alle basse gradazioni e all’analcolico, ma anche a giovani e coraggiosi bartender che hanno voluto e saputo creare e proporre qualcosa di “iconoclasta” rispetto ai dogmi della miscelazione d’autore.

Foto di Artem Pochepetsky su Unsplash

La sfida per il barman, che in questo scenario gode di uno status sempre più simile a quello dello chef, sta tutta nel creare drink capaci di trasmettere un’ebbrezza diversa da quella data dall’alcol, rivisitando i classici o creando cocktail moderni e originali, realizzati con pochi ingredienti particolari e di qualità (dagli sciroppi alle spezie ed erbe aromatiche), miscelati in maniera unica, per offrire qualcosa di interessante, innovativo e differenziante.

Un’altra tendenza che si osserva, anche dietro al bancone, è la sempre maggiore ricerca del consumatore di un’offerta “green”, ovvero la crescente pretesa di cocktail in cui l’aspetto etico ed ecologico emerge tanto dalla selezione di ingredienti utilizzati (apprezzati soprattutto se naturali e bio) quando dalla scelta del “contorno”: dai bicchieri alle cannucce, tutto deve essere plastic-free, oltre che esteticamente bello e quindi “instagrammabile”.

Ecco allora che i bicchieri tornano ad essere rigorosamente di vetro e le cannucce si fanno “alternative”: di cartone o persino di pasta. Tutti aspetti di cui un buon barman deve tenere conto.

Drink d’antan e nostalgie da assecondare… Ma anche voglia di novità
Per quanto giovane, innovativo e desideroso di lasciare la propria impronta rivoluzionaria nel panorama della mixology, nessun barman in erba può rinunciare alle radici della miscelazione moderna. E quindi non può non conoscere mostri sacri come i grandi cocktail classici (dal Martini allo Spritz, dal Gin Tonic, fino al Negroni, passando per Daiquiri, Cuba Libre, Long Island, Manhattan, Margarita, Mojito, Old Fashion, Paloma, Piña Colada, ecc), ma neppure ignorare il fenomeno della cosiddetta “throwback culture”, ovvero il ritorno in auge dei trend imperanti nel passato (che riguarda la moda, il cibo, l’intrattenimento e ovviamente la miscelazione), ciclicamente riportati al centro dell’attenzione.

E non è un caso se, attualmente, a tenere banco nel mondo della mixology nostalgica sono drink della “Milano da bere” anni Novanta (i cosiddetti “cringe cocktail”, secondo il quotidiano britannico The Times), ideati in un’epoca di grandi cambiamenti nella cultura popolare e caratterizzati da colori sgargianti (in particolare il blu dell’Angelo Azzurro e dle Blue Hawaiian) e da una presentazione spettacolare e instagrammabile (si vedano i cocktail in stile “tiki”,  serviti in tipici boccali in legno con decorazioni maori), nonché da una spiccata e artificiale dolcezza.

Riportati alla ribalta dalla Generazione Z e poi apprezzati anche dai Millennial, questi drink d’antan hanno subito una decisiva riabilitazione grazie alla nuova generazione di bartender, che si sono impegnati a riproporli con ingredienti più naturali e di qualità superiore rispetto agli originali, nonché a renderli più freschi e meno stucchevoli grazie a un migliore bilanciamento della componente acidula. Grazie a loro, anche la presentazione si è fatta più sobria e minimale, in linea con i concetti di semplicità e autenticità che ormai sono il fondamento di tutta la ristorazione contemporanea.

Proprio in virtù di queste conoscenze e capacità interpretative, nonché alla voglia incessante di sperimentare, i nuovi barman/barlady sono riconosciuti come una stirpe di raffinati mixologist, artisti dei colori ed esperti del gusto, in grado di rinnovare il settore dall’interno e soprattutto di garantire ai locali in cui operano uno stile inconfondibile, mixando ingredienti diversi con un’abilità da chimico (ai confini dell’alchimia) ma soprattutto creando un’atmosfera identitaria che trasforma il momento del drink in un’esperienza unica.

Foto di Lila Mitchell su Unsplash

Artisti si nasce e si diventa… nelle scuole migliori del mondo
Se da parte loro le industrie dei distillati, dei vermouth, dei fermentati e delle acque toniche stanno moltiplicando le etichette, ampliando l’offerta, da parte loro anche le scuole di formazione per bartender sono in fermento e pronte a fornire a una nuova generazione di barman/barlady le competenze necessarie per esprimersi al meglio e imprimere un’impronta significativa nel mondo della miscelazione.

Tra queste ci sono la storica Aibes (Associazione Italiana Barmen e Sostenitori), che dal 1949 è il punto di riferimento per chi vuole intraprendere una carriera nel settore, e la Mixology Academy, fondata nel 2008 da Ilias Contreas e Luca Malizia, con sedi a Milano e Roma, i cui allievi in più del novanta per cento dei casi trovano lavoro entro tre mesi dal conseguimento della certificazione.

Entrambe propongono corsi di avvicinamento e specializzazione per formare professionisti completi a 360 gradi, che abbiano cioè competenze sia nella selezione degli ingredienti e nella miscelazione degli alcolici (ma anche di succhi, estratti, tè, caffè, vino, birra e altre bevande fermentate come il kombucha), sia in tutto ciò che riguarda la gestione del drink cost e il management del bar.

A queste si aggiunge un nugolo di centri di formazione in tutta Italia, tra cui Accademia Barman di Roma, Drink Factory di Bologna, MicroOnda Group di Milano ecc.

Spostandosi all’estero si annoverano l’European Bartender School, fondata nel 1999 e oggi divenuta la più grande scuola di bartending al mondo, presente con più di venticinque scuole in cinque continenti, da cui sono usciti più di 80.000 professionisti di successo, e l’Accademia IBA (International Bartenders Association), un’organizzazione globale senza scopo di lucro fondata nel 1951 a Torquay, nel Regno Unito. Oggi è composta da corporazioni di baristi provenienti da 67 paesi con oltre 50.000 membri e il suo obiettivo è quello di favorire la condivisione di conoscenze e innovazioni nel settore del bartending attraverso la creazione di un network in cui fare incontrare i professionisti dell’industria delle bevande.

Infine non si può non citare l’American Bartenders School, con sede oltreoceano (a New York, patria dello speakeasy), in cui una parte fondamentale del corso per barman riguarda l’upselling, le mance e le tecniche per aumentare il profitto del bar e il proprio guadagno attraverso il giusto modo di interagire con i clienti.

Foto di Andrey Grodz su Unsplash

Incontrarsi in un bicchiere: il valore aggiunto della professionalità
Un aspetto poco considerato dell’attività della miscelazione è proprio il rapporto interpersonale (ora estemporaneo ed effimero, ora continuativo e assiduo) che si crea attorno al bancone: da un lato c’è il cliente, per il quale il momento del drink significa spesso evasione, relax, raccoglimento o celebrazione; dall’altro il barman, che mentre si esibisce davanti alla bottigliera cerca di entrare in relazione con chi gli sta di fronte, cercando di coglierne i gusti, i desideri e le aspettative, offrendogli non solo un cocktail “tailor made” ma anche un’esperienza unica e su misura.

Ed è proprio questo a fare la differenza tra il successo del “ready to drink”, “ready to enjoy” o “ready to share” (da Need Ice Only – NIO Cocktail a The Perfect Cocktail), i cui volumi dal 2018 a oggi, sono cresciuti più rapidamente di qualsiasi altra categoria di bevande (anche per effetto della pandemia e del distanziamento sociale che hanno favorito l’affermazione dei brindisi in videochiamata o semplicemente della “mixology domestica fai-da-te”), o dei futuri “erogatori di cocktail” con interfaccia touch screen, e l’esperienza del bar vero e proprio.

Il “cocktail perfetto” non è solo qualcosa da comporre, agitare, mescolare e versare, ma si arricchisce delle suggestioni dell’ambiente del locale, dall’atmosfera conviviale e, ovviamente, delle competenze (tecniche e relazionali) e della professionalità del barman (o della barlady). È lui (o lei), alla fine, a fare la differenza, con la sua gestualità, con la sua capacità di entrare in sintonia col cliente, e con la sua abilità nel proporre drink classici o innovativi che, in ogni caso, sappiano sorprendere e appagare più di qualsiasi kit esperienziale, “party box” o software di ricette preimpostate.

Insomma, al bancone prende forma un convivium “one to one”, un “vivere insieme” (stando alla traduzione letterale del termine latino) che ha due protagonisti: chi esprime la propria arte attraverso la miscelazione e chi è pronto a gustare il frutto di una sperimentazione improvvisata in cui può trovarsi o, viceversa, scoprirsi in maniera nuova, attraverso gusti che non sapeva di avere e che è stato il barman a cogliere prima di lui. Insomma, vale la pena sedersi e lasciarsi stupire… da chi sa come fare.

Le newsletter de Linkiesta

X

Un altro formidabile modo di approfondire l’attualità politica, economica, culturale italiana e internazionale.

Iscriviti alle newsletter