Sono molti i modi con cui si può guardare a un’esposizione di pittura. Come sono molti i modi per farla. A Milano, la Triennale ha messo in campo la collettiva Pittura italiana oggi che raccoglie centoventi opere scelte tra quelle di altrettanti pittori che hanno avviato la loro carriera a partire dagli anni Ottanta. Il piccolo Museo d’Arte di Mendrisio, a una sessantina di chilometri dal capoluogo lombardo, espone invece quasi lo stesso numero di lavori che rileggono il percorso del francese Roger de La Fresnaye (1895-1925) dagli esordi simbolisti alla brillantissima stagione cubista.
Per capire il lavoro di Roger de La Fresnaye è indispensabile guardare alla sua biografia, quella di un nobile di provincia che a tredici anni parte per completare i suoi studi a Parigi. Qui incrocerà la temperie cubista, adottandone brillantemente i modi a tal punto da meritare il riconoscimento di Picasso, che lo inserisce nella lista degli artisti che non sarebbero potuti mancare alla fondamentale mostra dell’Armory Show di New York nel 1913.
Presenti in snodi cruciali come il Salon des Indépendants e il Salon d’Automne, da quel momento le sue opere entrano a far parte delle più importanti collezioni pubbliche e private del tempo. Uno dei suoi capolavori, La Conquista dell’Aria (1913) oggi è conservato al MoMA di New York. De La Fresnaye è ormai un artista affermato, quando allo scoppio della Prima guerra mondiale si arruola portando a termine un’esperienza che sarà fatale tanto per il suo stato di salute: morirà appena quarantenne.
È possibile mettere a confronto due esposizioni così diverse? È possibile accostare la proposta di una grande istituzione come la Triennale con quella di un piccolo Museo del Canton Ticino?
Lo è perlomeno in riferimento al rumoroso dibattito in corso sulla necessità di un ritorno alla pittura (in realtà mai scomparsa) e alle implicazioni politiche sottese. Dietro l’interesse “stra-italiano” di una parte della critica (quella filogovernativa) c’è un intento identitario tanto confuso quanto perfettamente coerente con il periodo che sta vivendo il nostro Paese. Il riferimento ideale (manco a dirlo) in questo caso è il Futurismo, movimento artistico straordinario quanto carico di una innegabile aura di morte e distruzione, la stessa che accompagna la disastrosa vicenda politica che ha segnato gli anni Trenta e Quaranta del XX secolo.
Di certo i venti di guerra che hanno ripreso a circondare l’Europa riecheggiano quella scura atmosfera, ma evidentemente non a tutti è noto il celebre adagio secondo cui la storia si ripete sempre due volte: la prima volta come tragedia, la seconda come farsa.
L’espressione artistica (di ogni epoca e sotto qualsiasi cielo) è anche il riflesso degli accadimenti in cui chi la produce si è trovato a vivere. Così i centoventi dipinti allineati alla Triennale – per se stessi scevri da ogni finalità politica – restituiscono al visitatore un sentimento post-pandemico (sono tutti databili entro l’arco temporale degli ultimi tre anni) spesso costretto in una riflessione amara. Grande è ad esempio la presenza di corpi, fusi o compenetrati, umani o post-umani messi in scena tanto da gli artisti noti come Luigi Presicce e Nicola Samorì, quanto dai più giovani Pietro Moretti o Andrea Fontanari (ma elencarli tutti è impossibile).
Diverso e marcatamente più significativo è quel che si può vedere a Mendrisio. Il passaggio dall’Ottocento al Novecento – e poi la tragedia della Grande guerra – come detto hanno segnato profondamente i lavori di Roger de La Fresnaye. Ma gli eventi che sottendono le sue opere (inizialmente gli stessi che videro l’affermarsi del Futurismo) sono di ben altra portata rispetto al sentimento di ripiegamento messo in mostra alla Triennale. Di ben altra portata lo è l’arte che lo accompagna.