Una delle misure sanzionatorie più importanti imposte alla Russia dopo l’invasione dell’Ucraina è il price-cap sul petrolio trasportato via mare, che in base all’accordo tra G7 e Unione europea impone un tetto al prezzo di sessanta dollari al barile agli operatori che usano i servizi finanziari e assicurativi di società dei Paesi occidentali (dominanti nel settore) per commerciare il greggio degli Urali. L’obiettivo è trovare un equilibrio tra la volontà di ridurre le entrate di Mosca, e la necessità di scongiurare un vuoto di offerta nel mercato globale del petrolio, che causerebbe un’impennata dei prezzi.
Fino a pochi mesi fa il price cap ha avuto un certo successo, ma la Russia è stata molto abile a contrastarlo, mentre i governi occidentali non facevano abbastanza per controllare che venisse rispettato. Il risultato è che da luglio i russi riescono a vendere la maggior parte del petrolio a prezzi superiori a sessanta dollari al barile, riducendo l’impatto di una delle sanzioni più importanti per limitare la capacità del Cremlino di finanziare lo sforzo bellico in Ucraina.
Secondo funzionari dell’Unione europea ascoltati dal Financial Times, nel mese di ottobre quasi nessun barile di greggio degli Urali spedito via mare è stato comprato a un prezzo inferiore ai sessanta dollari. In base alle statistiche ufficiali russe, a ottobre il prezzo medio di vendita è stato superiore a ottanta dollari al barile, e negli ultimi tre mesi le entrate petrolifere di Mosca sono tornate a salire nonostante un calo del 3-5 per cento delle esportazioni.
Come viene aggirato il price cap
Il sistema del price cap riguarda soprattutto i servizi finanziari che coprono i costi assicurativi di trasporto delle petroliere per ogni singolo carico, in generale rispettati poiché si tratta di rischi come gli incidenti, la perdita del carico e gli sversamenti in mare, in grado di causare ingenti (e costosi) danni ambientali. Prima dell’invasione dell’Ucraina il commercio di greggio degli Urali era gestito dalle principali compagnie petrolifere, e da armatori che rispettano le sanzioni occidentali preesistenti (come per esempio quelle sul greggio iraniano) e le leggi internazionali.
Ma nell’ultimo anno queste società sono state gradualmente sostituite da nuovi operatori commerciali poco conosciuti, senza una storia pregressa nel settore, che hanno esportato rapidamente grandi volumi di greggio russo in Asia – soprattutto India e Cina – e poi chiuso le attività.
Inoltre, sul mercato globale è apparsa una flotta ombra di petroliere composta da centinaia di piccoli operatori che possiedono solo una o due navi. Si tratta in generale di vecchie petroliere ormai obsolete, che presentano rischi significativi per la sicurezza, e navigano battendo la bandiera di paesi come il Camerun e la Liberia. Queste navi trasportano milioni di barili russi, e spesso non dispongono di un’assicurazione standard del settore. Sono assicurate da aziende indiane, cinesi o russe, in un mondo in cui la maggior parte del mercato assicurativo globale delle navi cisterna ha sede a Londra.
Secondo le fonti del Financial Times, a ottobre solo trentasette delle centotrentaquattro navi che trasportavano petrolio russo possedevano un’assicurazione occidentale, un numero che è probabilmente adesso è ancora più basso. A volte, queste petroliere effettuano rischiosi trasferimenti di greggio da nave a nave in mare aperto, mescolando barili di petrolio russo con greggio di altri Paesi.
La rivalutazione del petrolio russo
Nel frattempo, nelle trattative di mercato è diminuito lo sconto sul greggio degli Urali, una costrizione subita dai russi nella prima fase dell’introduzione dell’embargo dell’Unione europea e del price cap.
Durante il primo anno di guerra gli acquirenti di India e Cina chiedevano sconti tra i 30-40 dollari al barile rispetto al prezzo del Brent, ora quello sconto si è ridotto a circa 10 dollari. Quando il prezzo del Brent è tornato a salire in seguito ai tagli alla produzione decisi dall’Arabia Saudita e dalla Russia in sede Opec+, anche il petrolio russo è stato venduto a prezzi più alti.
Il successo iniziale del price cap va attribuito a due fattori: l’embargo dell’Ue sul petrolio russo via mare, che ha privato Mosca del suo mercato più redditizio, e i severi sconti imposti ai russi dalle raffinerie indiane e cinesi, che spingendo il prezzo reale del greggio degli Urali sotto i sessanta dollari al barile lo tenevano de facto dentro i limiti del price cap. Ma con il tempo il mercato si è adattato alla nuova realtà, e la Russia è riuscita a restituire al settore una redditività sufficiente a portare avanti la guerra d’aggressione all’Ucraina.
Dal 24 febbraio 2022 a oggi Bruxelles ha adottato undici pacchetti di sanzioni contro Mosca, con risultati più o meno efficaci. Nel dodicesimo pacchetto, da mesi in negoziazione, la Commissione europea vuole concentrarsi anche sulle misure per contrastare l’elusione delle misure sanzionatorie.
La bozza in discussione introdurrebbe requisiti di rendicontazione più severi, volti a impedire che il petrolio russo acquistato in violazione delle sanzioni esistenti venga rivenduto con ricevute falsificate (attualmente bastano documenti paragonabili a delle autocertificazioni), nuovi criteri per definire il prezzo reale di compravendita dei barili (costi come il trasporto non sono inclusi), e il divieto per gli armatori occidentali di vendere ai russi le vecchie petroliere (come è successo con la Grecia). Misure che andavano introdotte fin dall’inizio.