Il tessuto delle favole Il bagaglio culturale racchiuso nelle sedie d’artista di Carla Tolomeo

Un’intervista per celebrare i venticinque anni delle sedie più famose al mondo: «Non sono opere di land-art, ma luoghi per accarezzarsi l’anima. Anche se sono scomodissime, come lo è la vita!»

Fronte Retro opera Courtesy Mirabili art, Carla Tolomeo © Enrico Cerri

«La vita stessa è una citazione». Non si può cominciare a raccontare Carla Tolomeo, signora indiscussa delle sedie d’artista, senza partire da Jorge Luis Borges. Il realismo magico è infatti la chiave di lettura per comprendere pienamente le celebri e celebrate sitting sculptures che l’artista, originaria di Pinerolo, realizza fin dalla fine degli anni Settanta: delfini, farfalle, fiori e lune sono le protagoniste indiscusse di una pratica artistica che richiama gli archetipi e che forse anche per questo è universalmente apprezzata.

Carla Tolomeo nasce nel 1941 da una famiglia importante, figlia di un generale e di una principessa. Insieme al noto critico letterario Giancarlo Vigorelli dal 1969 fino al 2005, amica intima di Marta Marzotto, è sempre stata protagonista discreta della borghesia intellettuale milanese. A partire dalla fine degli anni Novanta la produzione pittorica lascia sempre più spazio al successo delle sedie scultoree: da Tel Aviv, alle diciotto vetrine di Hermes a Parigi, a Mosca a New York, i primi anni Duemila vedono la consacrazione di Carla Tolomeo. E se molti non capiscono pienamente il pensiero e la storia sottostante tali opere, l’artista continua imperterrita nella sua ricerca artistico-espressiva per cui l’arte è un gesto liberatorio di amore e di catarsi. Dopo il maestro cinese delle sedie, HH LIM, non potevamo che incontrarla e scoprire il suo mondo. L’abbiamo fatto all’interno de suo bellissimo studio nel cuore di Milano tra velluti, antichità, marmi, sculture e ricordi.

Carla Tolomeo di fronte al suo studio con una delle prime sedie scultura della fine degli anni Novanta

Carla, ci conosciamo da quindici anni, abbiamo fatto due mostre insieme e non abbiamo mai fatto un’intervista. È giunta l’ora di raccontare la storia delle tue sedie-sculture.
La verità, vi prego, sull’amore… e sulle sedie. In effetti è strano come oggi tanti amino queste mie opere senza veramente comprenderle, mentre, quando cominciai più di cinquant’anni fa, accadde esattamente l’opposto.

Ovvero?
Il grande maestro e amico Giorgio De Chirico mi fece avere una mostra dedicata ai miei quadri alla Galleria Ca’ d’Oro di Roma. Era il 1978 o 1979, la mostra si intitolava “Metamorfosi”. Uno dei dipinti più riusciti era una sedia che si trasformava in una donna e viceversa. D’altronde, l’idea stessa di metamorfosi è centrale nel mio modo di concepire l’esistenza: siamo delle farfalle che continuamente passano da uno stato all’altro. Mentre organizzavamo la mostra mi venne l’idea di trasformare quel dipinto in realtà, realizzando tre sedute – una sedia, un divanetto e un divano – con imbottiture dalle forme sinuose. Le misi su delle pedane per far capire che erano opere d’arte. La critica fu entusiasta, mi ricordo anche i complimenti di Guttuso, però furono le uniche opere non vendute. Perciò smisi e per vent’anni feci altro.

Carla Tolomeo all’Hotel Maurice Parigi

Quando e come mai sei tornata alle “sedie”?
La peggior delusione che si può avere è quella che proviene dalle proprie azioni e scelte. Nel 1997 ebbi una grande mostra personale a Londra, poteva esser il trampolino per il “mondo”, ma mi chiedevano di trasferirmi a Londra e la famiglia me lo impediva. Mi sentivo frustrata e mi chiesi se fossi veramente un’artista. Perché chi veramente è “Artista”, pensavo, non ha famiglia, non ha casa, vive per l’arte. Io l’avevo e sentivo dei doveri nei confronti di mio marito e di mia madre (gravemente depressa) che aveva cominciato ad abitare con noi. Tornata a Milano, ero come bloccata e non riuscivo più ad andare in studio: credevo di aver perso il treno della mia vita. Mia madre, con cui passavo le giornate per accudirla, stanca delle mie attenzioni e continui sproni a riprendersi, un giorno all’improvviso mi disse: «dici a me, ma anche tu sei bloccata. Avevi cominciato bene con quelle sedie e poi non le hai più fatte!», della serie “predichi bene e razzoli male”. Questa frase estemporanea ammetto mi offese molto, ma fu anche un flash sul passato su qualcosa che avevo rimosso e seppellito. Andai subito, quasi correndo, in soffitta, presi una vecchia sedia e con la stoffa del negozio sotto casa feci una sedia con schienale a forma di delfino. La cosa sorprendente è che mia madre, principessa decaduta che non aveva mai lavorato in vita sua, mi aiutò, divertendosi molto. In fondo ci divertimmo tutti e così ne realizzai tre.

Retro opera Courtesy Mirabili art, CarlaTolomeo ©EnricoCerri

So che il successo di queste opere è arrivato quasi per caso, vero?
Avevo appena finito le prime sedie sculture, le avevo ancora in casa ed era il mio compleanno (28 febbraio). Venne a festeggiarmi la mia cara amica Marta Marzotto, accompagnata da una signora israeliana che mi chiese di fare alcuni scatti. Dopo due mesi, arrivò da Tel Aviv un giornale di moda con otto pagine sul mio lavoro. Fu così che cominciai a ricevere tantissimi inviti, tra cui quello importantissimo di Hermes con cui cominciò un sodalizio bellissimo, ma poi arrivarono anche gli Stati Uniti e la Russia. Ma tutto nella mia vita artistica è arrivato, perché io, se c’è una cosa che non so fare, è quella di promuovermi e fare salotto mondano. Io ho avuto tanti amici anche importanti, ma erano veramente amici. Non sono una PR.

Carla Tolomeo, Hermes

Il tuo lavoro è oggi forse più amato dal pubblico che dai critici. Come mai?
Direi soprattutto dalla critica dell’arte italiana, forse per la mia scarsa capacità di essere PR di me stessa e di frequentare i circuiti giusti. In effetti la mia fortuna è stata ed è tuttora la stampa, che mi ha amato e ha colto lo spirito del mio lavoro. È anche vero che molti non capiscono il citazionismo che è insito in tutti i miei lavori, ma non è una cosa che mi preoccupa. Ognuno di noi vede il mondo con le proprie lenti. Io altrimenti non potrei e saprei fare: il mio vissuto, e perciò la mia cultura, mi guidano nella mia arte. Non possiamo che citare, in quello che facciamo, ciò che abbiamo visto e studiato.

Come nasce l’ispirazione di una nuova sedia scultura?
Fui amica e ammiratrice di Jorge Luis Borges. Il suo Manuale di zoologia fantastica (“Manual de zoología fantástica”), più volte integrato e riscritto, è per me il punto di partenza. Spesso mi ritrovo a pensarci. La mia arte quando è scultura parte dall’archetipo, è un modo catartico per me per dare forma a una incontenibile pulsione interiore. Non parto nemmeno mai da un disegno, che conterrebbe e limiterebbe l’ispirazione. Ho un’idea vaga e proseguo. Vivo circondata da magnifici tessuti, ma nemmeno loro sono il punto di partenza. Tutto arriva da e dopo un’intuizione, una figura mentale, che ricopro con il velluto più adatto. Perciò non mi annoio mai a fare le mie sedie. Il mio studio è un laboratorio di vita: amo condividere il tempo con tappezzieri e artigiani di ogni tipo. Amo quando una persona sa e sa fare. L’intellettualismo fine a sé stesso non mi interessa.

Butterfly and roses by Carla Tolomeo. Courtesy Galleria d’Arte Contini

Per trentacinque anni sei stata al fianco di Giancarlo Vigorelli, tra i massimi critici letterari italiani del dopoguerra. Come ha influenzato la tua arte? La capiva e apprezzava?
Mio marito mi ha insegnato la libertà mentale. Nelle sedie vide finalmente il riconoscimento del mio talento e la possibilità di risolvere un conflitto interiore, ritrovando un senso e un equilibrio che credevo perso. Con lui e grazie a lui ho quindi avuto e maturato una inedita libertà artistica: ho sperimentato a prescindere dal giudizio altrui. L’unica cosa che mi contestò fu un romanzo autobiografico in cui raccontavo la mia esperienza con i missionari in Paraguay. Amo tutte le forme con cui si esprime la creatività, ma in effetti fu un testo che servì soprattutto a me per assimilare un’esperienza estrema, come quella di lavorare in un paese martoriato da povertà e da una politica autoritaria repressiva.

Il tuo mondo creativo spesso sconfina e ha forte connessioni con quello del design. Che rapporto hai con le arti applicate e con il design?
Ottimo. Senza eccessi. Credo di aver influenzato il design, di aver fatto tendenza. Sono stata apripista dell’oggetto che diventa arte, anche se forse non ho rivendicato a sufficienza i miei meriti. In fondo, il mondo in cui viviamo è tutto fluido e ibrido. Di nuovo la parola chiave è metamorfosi: da un oggetto, una sedia si arriva a qualcos’altro. «Ceci n’est pas une pipe». Così, di recente, ho avuto la bellissima possibilità di vestire un teatro privato di Belgrado (ndr, Palazzo dell’Arte Madlena), che da luogo è diventato arte. Un’esperienza unica. Per me tutto è arte, come non potrebbe esserlo?

Hai appena celebrato i venticinque anni delle tue sedie-sculture: come si sono evolute nel tempo?
Hai ragione: c’è stata un’evoluzione, perché io stessa sono cambiata e cresciuta. Sono stati anni felici, ma ho anche vissuto le più grandi tragedie della mia vita, ho perso tutto. Nel 2005 ho pensato persino di suicidarmi: cosa mi rimaneva? Ma sono andata avanti anche grazie alle sedie a quel fare con le mani che è catartico, terapeutico e rivelatore di ciò che hai nell’animo. Le forme sono oggi sempre più raffinate. Pian piano si stanno schematizzando dentro di me; prendono ritmi, mentre prima erano impetuose e numerose. Ora faccio meno, ma di più grandi dimensioni. Ne consegue che l’armonia e l’equilibrio, da sempre compagni di viaggio, vanno studiati meglio e prima. Diciamo che ora rifletto molto di più sull’immagine che ho in testa.

Ti manca mai la pittura?
La pittura per me è stata sofferenza, anche perché in essa io ci vedevo la prosecuzione dei maestri del passato: era una pittura figurativa, ma sempre concettuale e pertanto faticosa e non liberatoria, come invece lo sono le sedie. Ho sempre venduto molto, ma sono sempre stata stigmatizzata perché donna, bella, di buona famiglia, poi al fianco di un uomo molto famoso. Le sedie invece, non essendo capite, mi han lasciato più spazio di libertà espressiva, ma anche di riconoscimento. Perciò la pittura non mi manca, anche se io rimango una pittrice: la mia tavolozza sono i tessuti. Andarli a cerca mi dà sempre un’emozione quasi infantile! Peccato costino sempre di più e la globalizzazione abbia portato a una contrazione della varietà.

A thing of beauty 2022, Courtesy Mirabili art ©EnricoCerri

Il mondo che hai creato richiama la favola: che rapporto hai con la realtà e il passare del tempo?
Il mio tempo preferito è il futuro. I nuovi progetti mi tengono in vita, sono emozioni che prendono forma, ma nascono dal passato, di cui sono esperta conoscitrice e di cui ho piena e sofferta consapevolezza. L’arte, perciò, è una esperienza unica di sintesi. Il mio lavoro è allo stesso tempo fuori dal tempo, ma nel tempo dell’essere umano. La mia è una favola a occhi aperti, un rifugio emotivo e intimo, che condivido con gli altri. Le mie opere, anche se fossero realizzate in materiali più resistenti, non andrebbero bene all’esterno. Non sono opere di land-art, ma luoghi per accarezzarsi l’anima… anche se sono scomodissime, come lo è la vita!

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