Braccio di ferroI nodi da sciogliere per trasformare la Cop28 in un successo (totale o parziale)

Gli occhi sono puntati sulla cattura e lo stoccaggio della CO2, che l’industria fossile vuole cavalcare per salvare le fonti energetiche sporche. Il primo bilancio verde globale, che deve conciliare le posizioni di più di centonovanta Paesi, rischia di avere un “phase-out” zoppicante. O, ancora peggio, il “phase-down”

AP Photo/LaPresse (Ph. Peter Dejong)

Tra accordi non vincolanti, annunci privi di effetti concreti, panel su «yacht sostenibili» e sciami di delegati dell’industria fossile, i veri negoziati di questa controversa Cop procedono a ritmo spedito in vista della seconda parte della conferenza di Dubai. L’evento, che oggi è ufficialmente nel suo «rest day», terminerà sulla carta martedì 12 dicembre, ma – come spesso accade – l’accordo potrebbe essere raggiunto uno o due giorni dopo la scadenza ufficiale. 

Il nodo sul fondo per le Perdite e i danni (Loss and damage) è stato sciolto a poche ore dall’inaugurazione del summit, ma il denaro raccolto – più di settecento milioni di dollari – non sarà sufficiente per risarcire adeguatamente gli Stati più poveri, climaticamente più vulnerabili e meno responsabili del riscaldamento globale di origine antropica. Secondo un recente report, entro il 2030 servirebbero 2,4 miliardi di dollari per gli investimenti sul clima e la natura (protezione e ripristino) nei Paesi emergenti e in via di sviluppo, senza contare la Cina. 

C’è poi anche la questione dell’adattamento alla crisi climatica, che riguarda i finanziamenti, gli interventi e gli strumenti di monitoraggio in grado di aiutarci a vivere (e sopravvivere) in un mondo in cui il riscaldamento globale è ormai realtà. Secondo il Programma delle Nazioni unite per l’ambiente (Unep), gli investimenti necessari per i Paesi in via di sviluppo sono stimati tra i duecentoquindici e i trecentottantasette miliardi di dollari l’anno entro il 2030. Anche per questa ragione, l’adattamento potrebbe rivelarsi uno dei campi più ostici della seconda metà della Cop28. «C’è ancora tantissimo lavoro da fare», ha detto Adnan Amin, Ceo della conferenza di Dubai, a Bloomberg. 

La delicatezza del Global stocktake, il primo bilancio verde
La questione più spinosa da risolvere in vista delle fasi calde dei negoziati rimane il Global stocktake (Gst), che include altri due temi cruciali come l’accordo sull’eliminazione graduale delle fonti fossili (phase-out) e il ruolo dei sistemi di cattura e stoccaggio del carbonio (Ccs). Queste tecnologie, per semplificare, permettono di intrappolare le emissioni sotto terra (qui abbiamo spiegato approfonditamente come funziona). 

Il Global stocktake è un bilancio scritto dei progressi compiuti dai vari Paesi verso il raggiungimento degli obiettivi dell’accordo di Parigi, il cui articolo numero quattordici prevede una revisione degli impegni climatici ogni cinque anni. Oltre a fare il punto della situazione, il documento è anche la bussola delle azioni climatiche del futuro, perché ha lo scopo di capire se le misure adottate finora sono sufficienti per restare entro le soglie dei +1,5 gradi e dei +2 gradi di riscaldamento globale rispetto ai livelli preindustriali. Secondo Climate analytics, per rimanere nel “grado e mezzo” dovremmo ridurre del quaranta per cento la produzione fossile entro il 2030. Il Gst identifica anche le modalità di finanziamento e le norme necessarie per combattere la crisi climatica in modo rapido, efficace e – si spera – equo. 

È un testo completo, in grado di toccare tutti i principali temi in discussione a Dubai durante la Cop28: mitigazione dell’emergenza climatica (le azioni volte alla riduzione dei gas serra), adattamento all’emergenza climatica e strumenti finanziari di vario genere. Il Global stocktake è un documento unico, omnicomprensivo e che nasce da un accordo tra centonovantasette Paesi (più l’Unione europea) che hanno richieste, responsabilità e disponibilità economiche diverse. Per questo motivo, ottenere un testo finale che accontenti tutti è un’impresa complessa e delicata. 

Gli Stati più poveri – e più esposti agli eventi climatici estremi – sperano in un Global stocktake che non solo sottolinei le responsabilità delle economie più industrializzate, ma che metta nero su bianco dei consistenti aiuti economici. Cina e India, essendo realtà emergenti, si appigliano alle emissioni storiche dei Paesi occidentali. Russia e Arabia Saudita, tra i più grandi esportatori di petrolio e gas al mondo, premono sulla sopravvivenza delle fonti fossili. Stati Uniti e, soprattutto, Unione europea sono i blocchi più ambiziosi, ma non vogliono concedere nulla alla Cina e si aggrappano a escamotage controversi, uno su tutti i sistemi di cattura di carbonio (Ccs), su cui torneremo a breve. 

Non tutti i phase-out riescono col buco
Il 5 dicembre, in anticipo rispetto alle attese, è stata diffusa una bozza di testo dal sapore agrodolce. Buona notizia: è comparsa l’ambiziosa dicitura del phase-out, ossia l’eliminazione graduale delle fonti energetiche di origine fossile (carbone, gas, petrolio). Significa che, almeno, è una soluzione sul tavolo. Centosei Paesi, quindi più della metà, si sono detti favorevoli al phase-out, e l’esito della Cop28 si giocherà in gran parte su questo termine. Nei nostri occhi è ancora vivido il pianto Alok Sharma, presidente della Cop26 di Glasgow, dopo l’inserimento di «riduzione graduale» (phase-down) al posto di «eliminazione graduale» (phase-out) nel testo finale della conferenza sul clima del 2021.  

La brutta notizia è che la bozza ha tre opzioni di accordo molto diverse tra loro, soprattutto in termini di ambizione. La prima parla di «un’eliminazione graduale, ordinata e giusta dei combustibili fossili»: un phase-out a tutti gli effetti, insomma. La seconda mantiene il termine «eliminazione graduale», ma appare più vaga e meno virtuosa: «Accelerare gli sforzi per l’eliminazione graduale dei combustibili fossili unabated (le cui emissioni non possono essere “abbattute” mediante la cattura e lo stoccaggio di CO2, ndr) e ridurre rapidamente il loro uso per raggiungere le emissioni nette zero di CO2 nei sistemi energetici entro o intorno a metà secolo». 

Come riporta il think tank per il clima Ecco, non esiste ancora una definizione universalmente condivisa per stabilire quando l’uso delle fonti fossili sia abated o unabated. È fondamentale trovare una visione comune «al fine di non lasciare spazio a interpretazioni e assicurarsi che le misure per l’abbandono delle fossili che verranno prese da ciascun Paese siano in linea con gli obiettivi dell’accordo di Parigi». Questo è uno dei tanti nodi in vista delle fasi finali dei negoziati. Ad ogni modo, il termine unabated è concepito come un compromesso in favore delle industrie fossili e degli Stati più legati alle fonti energetiche sporche, che potrebbero continuare a bruciare carbone, gas e petrolio (a patto che le relative emissioni vengano catturate e sottratte dall’atmosfera).  

La terza opzione della bozza, invece, non cita affatto l’eliminazione graduale dei combustibili fossili, ed è chiaramente quella preferita dall’Arabia Saudita: «Non accetteremo assolutamente l’eliminazione graduale nell’accordo finale della Cop28. E vi assicuro che nessuno, sto parlando dei governi, ci crede davvero», ha detto Abd al-Aziz bin Salman Al Sa’ud, ministro dell’Energia. 

Il ruolo dei sistemi di cattura e stoccaggio della CO2
Sultan Al Jaber – presidente di Cop28, ministro Uae dell’Industria e Ceo dell’azienda petrolifera statale degli Emirati Arabi Uniti – è un tifoso del phase-out zoppicante, ossia quello dei combustibili unabated. La cattura e lo stoccaggio del carbonio (Ccs) è apertamente sostenuta anche da John Kerry, inviato statunitense per il clima, che il 6 dicembre ha detto: «La scienza dice che dobbiamo ridurre le emissioni. Non prescrive una disciplina particolare da seguire: dice di ridurre le emissioni. Sempre la scienza, inoltre, mostra che non possiamo arrivare alle zero emissioni al 2050 senza la cattura del carbonio». 

L’Unione europea non demonizza la Ccs, ma vuole limitarla il più possibile. Intervenuto ieri in conferenza stampa, Wopke Hoekstra, commissario Ue per l’Azione per il clima, ha parlato dell’importanza di un’eliminazione graduale di «tutte» le fonti fossili, non solo quelle per cui non è possibile “nascondere” le emissioni sotto terra. «Alcuni settori sono molto difficili da convertire, ma ciò non significa che, dove è possibile (una riconversione alle rinnovabili, ndr), le aziende o i Paesi possano cavarsela ricorrendo ai sistemi di cattura e stoccaggio di CO2», ha aggiunto. 

Secondo Federico Tassan-Viol, responsabile per la Diplomazia di Ecco, «Hoekstra ha dato un’interpretazione ambiziosa del testo del mandato del consiglio dell’Unione europea», lanciando un segnale molto chiaro: la transizione deve essere fatta ovunque sia possibile. «Per esempio – prosegue Tassan-Viol –, non puoi continuare a produrre elettricità con il carbone rimediando con un sistema di cattura e stoccaggio del carbonio. Servono le energie rinnovabili». 

Wopke Hoekstra, commissario Ue per l’Azione per il clima, il 6 dicembre alla Cop28 (AP Photo/LaPresse, ph. Kamran Jebreili)

Alcuni (pochi) settori dovranno per forza sfruttare la cattura e lo stoccaggio di CO2. Parliamo di cementifici, ceramica e industrie del vetro, detti hard to abate, ossia le industrie particolarmente energivore e difficili da convertire a un sistema produttivo basato sulle rinnovabili. Per il resto, però, non ci sono scuse, anche per perché la Ccs è costosa e ancora acerba.

Secondo l’Agenzia internazionale dell’energia (Iea), nel mondo esistono solo quaranta impianti commerciali di cattura della CO2 emessa dalla combustione delle fonti energetiche fossili. Insieme, queste infrastrutture hanno una capacità di cattura annua totale di oltre quarantacinque milioni di tonnellate (Mt) di CO2, che equivale a meno dell’un per cento delle emissioni globali del 2022 dovute all’energia. Nonostante dal gennaio 2022 siano stati annunciati più di cinquanta nuovi impianti (operativi entro il 2030), i progetti attuali coprono circa un terzo del fabbisogno dello scenario Nze (Net-zero emissions) al 2030. Sempre secondo l’Iea, il costo di un ciclo completo di assorbimento e stoccaggio della CO2 varia dai centoventiquattro euro ai trecentodiciassette euro a tonnellata di CO2. Il peso della Ccs nel Global stocktake è probabilmente l’ago della bilancia di questa conferenza sul cambiamento climatico. 

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