Quando ho bisogno di ascoltare un’analisi molto accurata su Israele, la prima persona a cui telefono è il mio amico di lunga data e compagno di reportage, Nahum Barnea, che da molti anni è un columnist del quotidiano Yediot. Quando l’ho chiamato nel pomeriggio del 7 ottobre per avere la sua opinione sull’attacco di Hamas a Israele, sono rimasto sbalordito dalla sua prima risposta: «Questo è il giorno peggiore che io ricordi in termini militari nella storia di Israele, compreso l’errore in occasione della guerra dello Yom Kippur, che fu terribile». Nahum è un reporter attento che si è occupato di ogni evento importante avvenuto in Israele nell’ultimo mezzo secolo. E, quando mi ha spiegato il suo ragionamento, ho capito che si trattava di un eufemismo.
Non si è trattato del solito scontro tra Hamas e Israele. Il confine tra Gaza e Israele è lungo solo sessanta chilometri, ma le onde d’urto che questa guerra scatenerà non coinvolgeranno soltanto Israele e i palestinesi di Gaza, ma colpiranno anche l’Ucraina, l’Arabia Saudita e, molto probabilmente, l’Iran.
Come mai? Una guerra prolungata tra Israele e Hamas potrebbe dirottare verso il Medio Oriente degli equipaggiamenti militari statunitensi che sarebbero stati necessari a Kyjiv e rendere impossibile – almeno per ora – l’accordo di normalizzazione dei rapporti tra Arabia Saudita e Israele a cui si stava lavorando. E, se si dovesse scoprisse che gli ayatollah hanno incoraggiato l’attacco di Hamas per mandare a monte l’accordo tra Israele e l’Arabia Saudita, questo potrebbe aumentare le tensioni tra lo Stato ebraico e l’Iran (e tra lo Stato ebraico e Hezbollah, il gruppo libanese manovrato da Teheran), nonché quelli tra l’Arabia Saudita e l’Iran. È un momento incredibilmente pericoloso su più fronti.
Ma torniamo al punto di Nahum: perché per Israele questa guerra è un disastro così grave, peggiore perfino dell’aggressione a sorpresa da parte dell’Egitto e della Siria che, proprio cinquant’anni e un giorno prima dell’attacco compiuto da Hamas il 7 ottobre scorso, diede inizio alla Guerra dello Yom Kippur? Tanto per cominciare, mi ha detto Nahum, per la pura e semplice ragione che l’esercito israeliano ha subito un’umiliazione: «Nel 1973 eravamo stati attaccati dal più grande esercito arabo, quello dell’Egitto». Questa volta, invece, Israele ha subito un’invasione in ventidue diverse località al di fuori della Striscia di Gaza, comprese comunità che si trovano fino a venticinque chilometri dal confine, da una forza militare appartenente all’«equivalente del Lussemburgo».
Eppure, questa minuscola forza non solo ha invaso Israele, sopraffacendo le truppe di frontiera israeliane, ma ha anche portato degli ostaggi israeliani a Gaza riattraversando lo stesso confine – un confine lungo il quale Israele aveva eretto una barriera che avrebbe dovuto essere virtualmente impenetrabile e per cui aveva speso circa un miliardo di dollari. E questo è stato un vero shock per il sistema di deterrenza di Israele.
In secondo luogo, ha osservato Nahum, lo Stato di Israele si è sempre vantato dell’abilità dei suoi servizi di intelligence nell’infiltrarsi nelle file di Hamas e tra i militanti palestinesi in Cisgiordania e di ricevere tempestivamente avvertimenti su quello che sta per succedere. Nelle settimane che hanno preceduto l’attacco, come sapeva chiunque seguisse le notizie da Israele, Hamas aveva condotto quelle che sembravano essere manovre di esercitazione per questo tipo di attacco lungo tutto il confine con Gaza, proprio sotto gli occhi dell’esercito israeliano.
Ma sembra che l’intelligence avesse interpretato quelle mosse come un tentativo da parte di Hamas di confondere le forze armate israeliane e di innervosirne un po’ i vertici e non come il preludio di un attacco. A quanto pare, i servizi segreti israeliani ritenevano che Hamas avesse un disperato bisogno di maggiore sostegno finanziario da parte del Qatar (che dal 2012 ha dato a Hamas oltre un miliardo di dollari in aiuti) e di permessi di lavoro per gli abitanti di Gaza che lavorano in Israele – e sia Israele sia il Qatar hanno sempre chiesto in cambio che sul confine la situazione si mantenesse tranquilla.
«L’interpretazione dei segnali data dall’intelligence era che Hamas si stesse esercitando per un qualcosa che poi non avrebbe mai osato fare», mi ha detto Nahum. «È stata una valutazione sbagliata, fatta con arroganza». Hamas, infatti, ha portato a termine degli sconfinamenti incredibilmente complessi e sofisticati sia via terra sia via mare.
Inoltre – e qui arriva la parte davvero terribile per Israele – a Hamas non è riuscito solo di varcare il confine e di entrare in territorio israeliano, attaccando numerose località e alcune basi dell’esercito israeliano, ma anche di rapire un certo numero di israeliani portandoli a Gaza. […]. I combattenti palestinesi hanno preso in ostaggio anche gruppi di israeliani nelle comunità di confine di Be’eri e Ofakim, che alla fine sono stati però liberati dalle forze speciali israeliane.
Questo sarà un problema enorme per Israele. Nel 2011, durante un un suo precedente mandato alla guida del Paese, il primo ministro Benjamin Netanyahu ha barattato 1.027 prigionieri palestinesi, tra cui 280 ergastolani, per ottenere la liberazione di un solo soldato israeliano, Gilad Shalit, prigioniero di Hamas a Gaza. E, visto che Hamas sta trattenendo degli anziani e dei bambini a Gaza, Bibi potrebbe essere costretto a svuotare tutte le carceri israeliane dai palestinesi ha osservato Nahum […].
«Tutto ciò che l’esercito israeliano farà a Gaza dovrà tenere conto dell’impatto che questo potrebbe avere sulla vita degli ostaggi civili», mi ha detto Nahum. Infine, ha osservato, i vertici dell’esercito e il primo ministro, che presiede il gabinetto di sicurezza, sanno bene che in futuro ci sarà probabilmente una commissione d’inchiesta per fare luce su come sia stato possibile che Hamas abbia trovato strada libera per attraversare il confine.
Quindi ora devono condurre questa guerra e prendere delle decisioni strazianti che prevedano un compromesso tra la deterrenza, la ritorsione, la restituzione di ostaggi nelle mani di Hamas […] e devono farlo con la consapevolezza che, anche se riuscissero a gestire tutte queste cose alla perfezione, alla fine li aspetterà comunque una qualche inchiesta. Non è facile ragionare in queste condizioni.
Come ho sempre sottolineato da quando Netanyahu è tornato al potere, la politica divisiva portata avanti dal primo ministro ha fatto dei danni terribili a Israele. Bibi ha dato la priorità rispetto a tutte le altre urgenze a un putsch giudiziario per privare la Corte Suprema israeliana del potere di supervisionare il suo governo. In questo modo, ha creato delle crepe nella società israeliana e nelle forze armate.
In molti avvertivano già da mesi che questo comportamento poteva essere molto pericoloso. Proprio nella settimana in cui poi è avvenuto l’attacco di Hamas avevo citato l’ex direttore generale del Ministero della Difesa israeliano, Dan Harel, che aveva detto a un raduno democratico di Tel Aviv: «Non ho mai visto la nostra sicurezza nazionale in uno stato peggiore». Harel aveva poi aggiunto e che a suo parere le unità di riserva delle formazioni essenziali delle Forze di Difesa israeliane avevano già subito dei danni che ne avevano «ridotto la prontezza e la capacità operativa».
Ma, per quanto Netanyahu possa essere stato nocivo per Israele, Hamas ha costituito invece una maledizione mortale per il popolo palestinese da quando ha preso il controllo di Gaza nel 2007. Gli aiuti, quantificabili in più di un miliardo di dollari, che ha ricevuto nel corso degli anni dal solo Qatar avrebbero potuto essere utilizzati per costruire a Gaza una società produttiva, con scuole, università e infrastrutture decenti, che avrebbe potuto essere un modello per un futuro Stato palestinese comprendente anche la Cisgiordania. Invece, Hamas ha dedicato la maggior parte delle sue energie e delle sue risorse a scavare dei tunnel verso Israele e a costruire razzi per cercare di distruggere un nemico molto più potente – privando così gli abitanti di Gaza di una qualsiasi possibilità di realizzare il loro pieno potenziale, attraverso un governo decente, democratico e produttivo.
Ma perché Hamas ha iniziato questa guerra proprio in quel momento? C’è da chiedersi se sia entrato in azione non tanto per conto del popolo palestinese, quanto piuttosto per volere dell’Iran, che per Hamas è un importante fornitore di denaro e armi, e che lo abbia fatto per contribuire a evitare la nascente normalizzazione delle relazioni tra Israele e l’Arabia Saudita, che è il grande rivale dell’Iran nella regione.
Un accordo del genere, così come era stato redatto, avrebbe oltretutto avvantaggiato la più moderata Autorità Palestinese che governa la Cisgiordania e avrebbe così goduto di un’enorme iniezione di denaro proveniente dall’Arabia Saudita, nonché di una limitazione agli insediamenti israeliani e di altre modifiche progressive intese a preservare la soluzione dei due Stati. Di conseguenza, i leader della Cisgiordania avrebbero probabilmente riacquistato agli occhi delle masse palestinesi quella credibilità di cui hanno disperato bisogno. E tutto questo avrebbe invece minacciato la credibilità di Hamas.
Quell’accordo tra Stati Uniti, Arabia Saudita e Israele avrebbe innescato anche un terremoto diplomatico e probabilmente Netanyahu avrebbe dovuto scaricare gli elementi più estremisti del suo governo in cambio della creazione di un’alleanza tra lo Stato ebraico e gli Stati sunniti del Golfo Persico contro l’Iran. Nel complesso, si sarebbe trattato di uno dei più grandi spostamenti di placche tettoniche avvenuti nella regione negli ultimi settantacinque anni. Dopo l’attacco di Hamas, quell’accordo è ora in fase di congelamento, poiché i sauditi hanno dovuto legarsi più strettamente che mai agli interessi palestinesi e non più solo ai propri.
In effetti, poche ore dopo l’invasione di Hamas, l’Arabia Saudita ha rilasciato una dichiarazione rilanciata dalla rete tv Al Arabiya: «Il Regno sta seguendo da vicino gli sviluppi senza precedenti tra alcune fazioni palestinesi e le forze di occupazione israeliane». E ha aggiunto di aver «ripetutamente avvertito di quali sarebbero state le conseguenze del deterioramento della situazione a causa dell’occupazione, del fatto che il popolo palestinese è privato dei suoi diritti e della mancata cessazione delle provocazioni sistematiche contro i suoi luoghi santi». E ora sto osservando come il terremoto Hamas-Israele susciterà un altro terremoto.
L’Ucraina stava già facendo i conti con alcune turbolenze interne al governo americano. Il disarcionamento dello speaker della Camera dei Rappresentanti, combinato con l’attività – a mio avviso scioccante – di una minoranza sempre più rumorosa di parlamentari del Partito Repubblicano, che si sono espressi contro qualsiasi ulteriore aiuto economico e militare all’Ucraina, ha creato un pasticcio politico che ha messo a rischio l’approvazione di altri aiuti statunitensi per Kyjiv.
Se Israele sta per intraprendere una lunga guerra, l’Ucraina dovrà preoccuparsi della concorrenza di Tel Aviv per i missili Patriot, i proiettili d’artiglieria da centocinquantacinque millimetri e altri armamenti di base di cui ha un disperato bisogno e di cui sicuramente avrà bisogno anche Israele.
Vladimir Putin se n’è accorto. Pochi giorni prima dell’attacco da parte di Hamas, mentre si trovava nella località turistica di Sochi sul Mar Nero, ha dichiarato che l’Ucraina si sostiene «grazie alle donazioni miliardarie che le arrivano ogni mese». E ha aggiunto: «Immaginate che gli aiuti si fermino domani». L’Ucraina «tirerà avanti solo per una settimana e poi finirà le munizioni».
Può uscire qualcosa di buono da questa nuova terribile guerra tra Hamas e Israele? È troppo presto per dirlo, ma un altro mio amico israeliano di lunga data e analista di cui mi fido, il professor Victor Friedman (no, non c’è alcuna parentela), il quale insegna Scienze comportamento tali al Jezreel Valley College nella regione centrale di Israele e conosce molto bene la comunità araba israeliana, mi ha scritto il giorno dell’attacco, dicendo: «Questa orribile situazione è comunque un’opportunità, proprio nello stesso modo in cui anche la Guerra dello Yom Kippur si è poi rivelata un’opportunità, dal momento che si è conclusa con un accordo di pace con l’Egitto.
L’unica vera vittoria potrà essere […] la creazione delle condizioni per un accordo reale e stabile con i palestinesi». Alla luce di ciò che hanno fatto oggi, mi ha detto, i palestinesi potranno comunque «rivendicare una certa “vittoria”, indipendentemente da ciò che accadrà in seguito ». Il problema è che «qualcuno dovrebbe pensare un po’ più in là del “Ci vuole più forza, ci vuole più forza”», ha aggiunto.
Personalmente, io non credo che Hamas potrà mai essere un partner con cui stipulare una pace sicura con Israele. In molti anni il gruppo palestinese ha già avuto troppe occasioni di dimostrare che le responsabilità connesse con il governo di Gaza avrebbero mitigato il suo obiettivo di distruggere lo Stato ebraico. Ma si è rivelato essere solo una mafia islamista palestinese, interessata soltanto a preservare il suo potere su Gaza e a comportarsi come un burattino nelle mani dell’Iran, invece di porsi come obiettivo principale un nuovo futuro per i palestinesi nella Striscia e in Cisgiordania. La storia della sua esperienza di governo a Gaza è vergognosa.
L’Autorità Palestinese, invece, potrebbe essere un partner. Quindi, se a Gaza ci sarà un’azione israeliana volta a distruggere Hamas, essa dovrà essere accompagnata da un’iniziativa politica che attribuisca più potere all’Autorità Palestinese e le dia più forza, in modo che si possa forgiare, per usare le parole che mi ha scritto Victor Friedman, «un accordo che fornisca a tutte le parti una qualche situazione con la quale possano convivere. Altrimenti, prima o poi, ci ritroveremo di nuovo nella stessa situazione – ma in condizioni peggiori. Questa è stata la vera lezione della Guerra dello Yom Kippur».
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