Con settantuno negoziati portati a termine, il 31 dicembre terminerà ufficialmente il semestre della Spagna alla presidenza del Consiglio dell’Unione europea. Un’occasione per influenzare l’agenda politica dell’Unione che il presidente spagnolo Pedro Sánchez ha saputo cogliere solo in parte, a causa dell’anticipo delle elezioni nazionali a fine luglio e della riaccensione del conflitto tra Israele e Palestina.
Rafforzare l’autonomia strategica e l’unità europea, ma anche investire nella transizione ecologica e nella giustizia sociale ed economica: queste erano le quattro priorità che Sánchez aveva delineato a inizio semestre. I più grandi successi della presidenza spagnola arrivano proprio dal primo fronte, con la firma dell’accordo tra Consiglio dell’Unione europea e Parlamento europeo sulla riforma del mercato elettrico (merito soprattutto della ministra per la transizione ecologica spagnola Teresa Ribera, che è stato anche il volto dell’Unione alla COP28) e sul regolamento sull’intelligenza artificiale, arrivata dopo un negoziato lungo trentasei ore.
Negli ultimi giorni prima della fine del semestre, la presidenza spagnola è riuscita a intestarsi anche l’accordo tra Consiglio e Parlamento sulla riforma del sistema migratorio europeo, presentato dalla Commissione nel settembre del 2020, e quello tra i ministri dell’economia dei ventisette Paesi sulla riforma delle regole di bilancio, preceduto, come spesso avviene a Bruxelles, da un accordo tra Francia e Germania, e supervisionato da Nadia Calviño, ex ministra dell’economia spagnola eletta a inizio dicembre presidente della Banca europea degli investimenti.
Rispetto alle questioni sociali e ambientali, durante il semestre spagnolo il Consiglio dell’Ue e il Parlamento hanno raggiunto un accordo provvisorio su un regolamento per ripristinare e preservare gli habitat degradati all’interno del territorio dell’Unione, mentre gli Stati membri hanno raggiunto una posizione comune sulla direttiva che istituisce la carta europea della disabilità, un orientamento che garantisce parità di accesso a condizione speciali alle persone disabili durante i soggiorni brevi in tutta l’Unione europea.
Nonostante i numerosi accordi raggiunti e gli elogi della presidente della Commissione Ursula von der Leyen, il semestre alla presidenza del Consiglio dell’Unione europea è stato un’occasione mancata per la Spagna e il suo presidente. «Il più grande problema della presidenza è stata la mancanza di ambizione nel lasciare un’impronta duratura sull’agenda comunitaria», ha osservato El País in un editoriale, confrontando il semestre spagnolo con quello francese di tre anni fa, in cui Macron non si era limitato a far avanzare i numerosi accordi in discussione alle istituzioni europee, ma aveva imposto la sua visione geostrategica dell’Unione europea in un momento delicato come l’inizio della guerra tra Russia e Ucraina.
La mancanza di ambizione della presidenza spagnola, tuttavia, è stata in gran parte dovuta all’anticipo delle elezioni nazionali voluto dallo stesso Sánchez in seguito ai risultati deludenti del suo partito alle elezioni regionali e amministrative di fine maggio. Il semestre alla presidenza del Consiglio dell’Ue, infatti, è iniziato quasi allo stesso momento della brevissima campagna elettorale estiva, che ha portato a una vittoria, sulla carta, del principale avversario politico di Sánchez, Alberto Núñez Feijóo, presidente del Partido Popular (centrodestra). Feijóo, tuttavia, si è dimostrato incapace di trovare i seggi necessari per formare un nuovo governo, mentre Sánchez, dopo mesi di trattative con il partito indipendentista catalano Junts e altre formazioni regionali e autonomiste, è tornato per la terza volta al governo della Spagna lo scorso 17 novembre.
Dal punto di vista europeo (o almeno, di quello di chi lavora al Consiglio dell’Ue), l’investitura di Sánchez è stato il miglior risultato possibile. In caso di un cambio di governo in corsa, «a livello logistico e politico, il caos è assicurato», aveva affermato una fonte diplomatica a Politico a inizio luglio. E con ragione: secondo fonti vicine a Feijóo di El País, il Partito Popular non ha mai avuto un piano per occuparsi della presidenza spagnola al Consiglio dell’Ue in caso di vittoria alle elezioni nazionali.
Oltre alla campagna elettorale e ai negoziati per la formazione di un nuovo governo, la presidenza di Sánchez ha anche scontato le conseguenze della riaccensione del conflitto tra Israele e Palestina. A differenza di altri rappresentanti europei, infatti, Sánchez ha condannato più volte gli attacchi di Israele sulla Striscia di Gaza e il loro mancato rispetto del diritto internazionale e ha proposto, con scarso successo, una tregua umanitaria (che si è tradotta, invece, in una serie di pause).
Allo stesso tempo, come ha sottolineato invece il consulente Ramón González Bernal su La Razón, la presidenza di Sánchez si è ispirata al modello francese nell’organizzare summit internazionali dal grande impatto mediatico e nel dare grande visibilità al presidente del Paese di turno. Il più importante è stato senza dubbio il vertice della Comunità politica europea a Granada, organizzato a inizio ottobre e ampiamente criticato per i suoi risultati inconcludenti sui principali temi in discussione, migrazioni e Ucraina. Tra i punti deboli della presidenza spagnola, Andrea Betti, professore di relazioni internazionali all’Università Pontificia Comillas di Madrid, ha evidenziato anche gli scarsi risultati di un altro summit, quello con gli Stati dell’America latina (Ue-Celac), organizzato a luglio. «L’obiettivo di trasformare l’area in una priorità per l’Unione europea non è stato raggiunto. In generale, i Paesi dell’Unione sono poco interessati in questa regione», ha sottolineato Betti.
Dal 1 gennaio, la palla passa al Belgio e al primo ministro Alexander De Croo, che dovrà trasformare i numerosi accordi stretti sotto la presidenza spagnola in direttive, regolamenti o decisioni prima della fine della legislatura, che coinciderà con le elezioni europee di inizio giugno.
Una corsa contro il tempo che è resa ancora più urgente dal Paese che tra un anno si ritroverà per sei mesi alla guida del Consiglio dell’Unione europea: l’euroscettica Ungheria.