Tamara Kostianovsky è un’artista che si sta facendo conoscere, soprattutto negli Stati Uniti, per il suo lavoro innovativo e provocatorio, che risulta essere una catarsi dell’esperienza personale dell’artista, nata a Gerusalemme e cresciuta in Argentina negli anni duri della dittatura della giunta militare (1976-1983).
L’artista è molto riconoscibile perché trasforma indumenti usati e tessuti in sculture e quadri-scultura da appendere. Protagonista di queste opere iper-colorate è il corpo violato, aperto, dissezionato con cui Tamara cerca di superare la rappresentazione classica e il modo stesso in cui ci percepiamo. Sempre forti, profondi e significativi i temi trattati: dalla violenza di genere alla memoria, dalla sostenibilità alla ricerca dell’identità. L’introspezione di un’artista non facile, nemmeno da intervistare: si fonde con una parte decorativa e floreale, quasi giocosa, attraverso il colore e le fantasie degli abiti re-impiegati. Questo paradosso visivo contribuisce a rendere le opere di Tamara Kostianovsky fonte di riflessione continua: impossibile rimanere indifferenti quando ce le si trova di fronte: un bue squartato appeso fatto di tessuti floreali, ad esempio.
La sua arte risulta al contempo provocatoria ma mai respingente e – in fondo – molto decorativa. Tale mix è risultato vincente tanto per i collezionisti, quanto per le gallerie e per i musei di tutto il mondo, che da anni dedicano grande attenzione al suo lavoro: dal Museo del Barrio al Museo Ebraico di New York, dal Bienal Sur di Buenos Aires al Museo del Tessuto e della Moda a Cholet in Francia al Fuller Craft Museum di Boston. Non solo, Tamara Kostianovsky è stata sostenuta più volte dalle più importanti istituzioni statunitensi, tra cui la John Simon Guggenheim Memorial Foundation e la Pollock-Krasner Foundation.
Dopo qualche ritrosia iniziale, siamo riusciti a sviscerare e farci raccontare questo lavoro tanto facile a livello visivo, quanto complesso da comprende pienamente, fatto di carne, fiori, tessuti e molto altro.
In che modo il tuo background ebraico ha influenzato il tuo lavoro?
Sono cresciuta in una famiglia ebraica secolare (laica, ndr), ma preferisco mantenere le mie opinioni sulla religione private e concentrare questa intervista sul mio lavoro e il mio processo creativo.
Il tuo lavoro racconta chi sei e mi sembra che tu sia tutta dentro le tue opere: preferisci parlare di trascendenza? Altrimenti mi sembra riduttivo inquadrare il tuo lavoro come mero citazionismo dell’arte antica in cui l’elemento religioso e la sua rappresentazione sono fulcro centrale.
Io rappresento sempre un corpo per superare e trascendere il modo in cui noi percepiamo, comprendiamo e rappresentiamo noi stessi. La trascendenza implica una trasformazione fisica e una metamorfosi e il mio lavoro allude principalmente a questo elemento attraverso la manipolazione dei materiali. Lavoro principalmente con abbigliamento scartato. Questo materiale determina nell’opera qualcosa di molto specifico: porta con sé una trasformazione dell’abbigliamento, la nostra “seconda pelle”, fino ad analizzare la natura più viscerale di tutti gli esseri viventi.
Come è nato il tuo interesse alla trascendenza della e nella carne?
Il mio lavoro è ispirato dalle immagini che ho visto crescendo in Argentina durante la giunta militare: la presenza onnipresente delle carcasse di animali nei mercati di Buenos Aires, nella mia mente, è diventata un surrogato della violenza sponsorizzata dal regime. Mescolo questa immagine disturbante con tableaux del mondo naturale; esamino la distruzione della terra e dei corpi, concentrandomi sull’immagine e sul concetto della ferita per collegare il trauma personale e culturale alla violenza sul paesaggio terrestre. Prendendo spunto da questa esperienza e cerco di coinvolgere gli spettatori in riflessioni sulla violenza, sull’ecologia, sulla cultura del consumismo e sulla considerazione di come queste aree si intersecano.
Qual è il tuo rapporto con i maestri del passato? Sembra che ci siano forti riferimenti a pittori fiamminghi, ad esempio.
Sono particolarmente attratta dalle immagini della carne che popolano la storia dell’arte. Alcuni dei miei artisti preferiti includono Rembrandt, i maestri olandesi della natura morta del XVII secolo che amavano raffigurare la carne e artisti contemporanei come Artur Barrio, Ana Mendieta e Adriana Varejao, tra gli altri. La connessione con questi artisti fornisce un contesto al mio lavoro e lo collega a una tradizione di artisti non timorosi di raffigurare il corpo in modo non convenzionale.
Per capire meglio queste tue riflessioni, ci racconti le opere che più hanno segnato il percorso della tua ricerca artistica?
La prima opera che faceva riferimento a una carcassa di carne, intitolata “Motherland” (Patria) del 2007: è stata importante per me, poiché ha aperto una linea di lavoro e un interesse che ancora oggi nutre e permea in tutto ciò che faccio. Allo stesso modo, la prima scultura che ho realizzato di un uccello morto è stata anche una sorta di rivelazione, un’opera che ha incapsulato e dato forma visiva a molti dei miei interessi: morte, bellezza, corpo aperto, cristianesimo e motivi decorativi, solo per citarne alcuni. Infine, non tutti sanno che la serie di alberi è iniziata dopo la morte di mio padre. Queste sculture sono fatte con molti dei suoi abiti e per me queste opere sono un modo di estendere la sua presenza, nel mio lavoro e oltre.
E arriviamo ai tessuti. Dopo la “carne”, la tua cifra stilistica più evidente sono gli indumenti recuperati con cui componi e costruisci le tue opere. Come ci sei arrivata?
Tutto il mio lavoro è creato con tessuti recuperati, soprattutto vestiti. Tra il 2004 e il 2008, per necessità economica, ho letteralmente cannibalizzato tutto il mio guardaroba per creare una serie di sculture di carcasse, che facevano riferimento ai femminicidi avvenuti durante la dittatura. Tutto è nato per riflettere e come conseguenza dell’omicidio di mia nonna di ottantun anni avvenuto a Buenos Aires nel 2004, un caso mai risolto dalla polizia. In quel momento, pensavo al mio abbigliamento come al mio surrogato e creare il mio lavoro con esso è diventato il mio modo di includere il mio corpo nel lavoro, in una sorta di performance indiretta, in cui incarnavo il corpo violato. Nel tempo l’uso di abbigliamento scartato si è esteso parallelamente alla riflessione: oggi comprende così contemporaneamente preoccupazioni sociologiche, geopolitiche ed ecologiche più ampie. Dall’epoca in cui ho preso coscienza degli effetti negativi del movimento “Fast Fashion”, è stato importante per me riutilizzare questi materiali onnipresenti, impedendo loro di finire in discarica. L’uso di tessuti scartati evoca anche la nostalgia. L’abbigliamento contiene ricordi di esperienze vissute al suo interno, spesso portando con sé l’odore e le cellule del portatore. L’upcycling degli abiti mi permette di rendere visibili le storie della schiavitù, dei lavoratori dell’abbigliamento, dei sindacati e degli immigrati; mi consente di smascherare come le tecnologie dell’umanità si intreccino – spesso violentemente – con le materie prime della Terra.
La tua connessione con la natura sembra centrale nel tuo lavoro. Potresti raccontarci di più sul tuo rapporto con la natura?
Come per la maggior parte di noi, il mio rapporto con la natura oggi è molto influenzato dall’urgenza dei cambiamenti climatici. Alcuni anni fa ho iniziato a sviluppare una serie di opere che immaginavano la metamorfosi delle carcasse in paesaggi di vegetazione rigogliosa, popolati da uccelli esotici, in una serie intitolata “Tropical Abattoir”. Utilizzando principalmente abbigliamento scartato come materiale principale, queste sculture incarnano il passaggio da una “cultura del macello” a un modello di fertilità, rigenerazione e sostenibilità. Sottolineando l’incarnazione ecologica e l’interdipendenza, queste opere rendono visibile una natura materiale condivisa tra tutti gli esseri viventi. Utilizzando i tessuti, il progetto “vela” il paesaggio terrestre sotto un solo manto, spingendo a un’identificazione tra il corpo e la natura, affermando in ultima analisi che il corpo è il paesaggio.
Nonostante i temi trattati, il tuo lavoro è molto colorato e mai repulsivo nei confronti dello spettatore. Come sei arrivata a questa sorta di equilibrio nell’ambivalenza?
Le mie scelte di colore non sono intenzionali, ma si ricollegano alla mia esperienza di vita a New York, dove vivo da vent’anni. Mi identifico come un artista “Latinx”, un neologismo che fa riferimento alle persone di discendenza ispanica/latino-americana/antillana che sono state educate o vivono e lavorano negli Stati Uniti e si considerano americane. L’influenza dei miei coetanei di origini simili – in particolare quelli dei Caraibi –, mi ha spinto a utilizzare colori vivaci, ad abbracciare la flora e la fauna tropicali e a prendere consapevolezza della storia di colonizzazione e saccheggio che ha seminato la vita nelle Americhe.
Come sviluppi una nuova opera? Pensi in tre dimensioni fin dall’inizio?
Traggo ispirazione dalla natura e uso grandi raccoglitori con immagini stampate di carcasse, alberi e uccelli da cui disegno. Di solito ho un’idea di ciò che voglio prima che il lavoro inizi, ma i miei piani tendono a cambiare durante il processo di creazione di ciascuna scultura. Ci sono settimane in cui osservo semplicemente la scultura mentre lavoro su qualcos’altro, fino a quando trovo una soluzione per un problema formale o fino a quando mi rendo conto che il lavoro è completato e non ha bisogno di altro. Ma in gran parte è il primo caso. Il mio lavoro si basa su un quasi tedioso processo di raffinamento in cui torno al lavoro più volte per pulirlo, accentuare una diagonale o levigare un contrasto fino a quando non sono soddisfatta. Solo per le opere con gli alberi creo modelli tridimensionali che pianificano la carpenteria che sostiene le sculture. Queste opere sono a grandezza naturale, complesse e ho bisogno di un piano più solido prima di iniziare.
Per altre analisi sull’arte tessile vi lasciamo due approfondimenti sulle opere di Mariko Kusumoto e Carla Tolomeo.