L’unica volta che ho incontrato Alessandro Gassmann non gli ho chiesto di suo padre, che pure è unico occupante del mio pantheon, lo è da quand’ero alle elementari e non credo smetterà mai d’esserlo. Non gli ho chiesto del film per festeggiare il quale si svolgeva quella cena, non gli ho chiesto delle sue mansioni da spazzino volontario di Roma. Gli ho chiesto di Ciro.
Se, come me, in quel gennaio eravate in quarta liceo, è plausibile che a quella che sarebbe diventata la scena più famosa della televisione italiana abbiate assistito in diretta, giacché il programma di Sandra Milo andava in onda dopo “Quando si ama”, e tutte guardavamo “Quando si ama”, e nessuna si ricordava di spegnere subito la tv quando finiva (anche perché prima spegnevi prima iniziavano a dirti «vai a fare i compiti»).
La scena «Cirooooo» è così famosa che non serve ve la racconti, “Blob” ci ha campato per decenni, ed è quindi ragionevole pensare che non serva averla vista in diretta, e invece. E invece in quel programma, che si chiamava “L’amore è una cosa meravigliosa”, ogni giorno la Milo aveva ospite una coppia, quel giorno Alessandro Gassmann e la sua allora fidanzata Francesca d’Aloja.
Quando la Milo fugge via, c’è un tempo interminabile che noi avevamo vissuto e spesso “Blob” tagliava, un tempo di probabilmente meno d’un minuto ma un minuto di silenzio in tv è un kolossal, in cui la d’Aloja e Gassmann si guardano tra loro, guardano fuori scena, si domandano silenziosamente ciò cui non c’è risposta: cosa fai quando la conduttrice fugge via e le telecamere sono accese e sei in diretta?
La generazione dopo avrebbe avuto l’undici settembre; quella precedente aveva avuto l’allunaggio. Noialtre adolescenti del 1990, che all’altezza di Vermicino eravamo troppo piccole per capire la comunicazione di massa, abbiamo vissuto un unico momento in cui eravamo consapevoli d’assistere in diretta alla storia della tv.
La generazione dopo, la più noiosa della storia del mondo, su «Cirooooo» avrebbe fatto il debunking, la parola inventata che applichiamo quando ci sembra importantissimo conoscere la verità sulle puttanate, assai più che conoscerla sulle cose serie. Per fortuna abbiamo, Sandra Milo e noi, vissuto quel secolo con un qualche senso delle gerarchie.
Quel momento che alla tele vedemmo proprio tutti potrebbe essere la nostra versione di Sandra Milo. Potrebbe, ma non è detto lo sia, giacché di Sandra Milo ognuno ha avuto la sua. Per i felliniani era quella di “8 1/2”, per noialtre vittoriogassmaniane quella di “Fantasmi a Roma”, per i più cinefili “La visita”, in cui il libraio corteggiatore con velleità culturali, uno che a «thank you» rispondeva «de rien», le scriveva «una conditio sine qua non, scusi la citazione», e lei era così di provincia che non fuggiva subito; e poi sarebbe stata molte altre cose, dimostrando una qualità che nessuno avrebbe previsto nei suoi anni da bionda svampita: la tenuta sul lungo periodo.
Di recente era in un programma di Sky assieme a Mara Maionchi e Orietta Berti, novantenne e ancora lì a fare sé stessa, il formidabile personaggio che si cuciva addosso da una vita, e io non l’ho mai guardata, potrei dirvi per principio, per lo stesso principio per cui spengo la tele quando da Fazio entra la Vanoni.
Trovo, questa è la mia scusa ufficiale, che una delle invenzioni più abominevoli del postmodernismo sia il format “Guarda com’è ancora in forma la vecchia”. Ma la vera verità è che sono invidiosa: mi è arrivata la notizia che era morta mentre mi prelevavano il sangue, ho pensato che ho poco più della metà dei suoi anni e lei è morta molto più in forma di me.
Qualche anno fa, stavo scrivendo “I mariti delle altre”, comprai “Caro Federico”. È un romanzo uscito quando io avevo dieci anni e Sandra Milo quarantanove, quando io ancora non sapevo che un giorno avrei deciso che l’adulterio era la chiave per capire il Novecento italiano, e Sandra Milo faceva ciò che sempre hanno fatto le amanti degli intellettuali di quel secolo: smaniare per far sapere che erano tali, cercare un piccolo riflettore per il loro ruolo senza riconoscimenti.
Oggi “Caro Federico” – uscito che erano ancora vivi sia Federico Fellini sia Giulietta Masina – sarebbe definito «autofiction», una parola così orrenda che solo in questo secolo con le idee confusissime sull’io narrante potevamo inventarcela. Io ne ricordo una scena che poi avrei ritrovato leggendo dell’amante di Boris Pasternak che la moglie non faceva avvicinare mentre lui stava morendo: Sandra che va fino alla casa di Fregene, a immaginare da fuori dalla porta la vita che le è preclusa, quella coniugale di Giulietta e Federico.
Era una scena che avrebbe potuto scrivere Scola, che sapeva scrivere le donne del Novecento con una precisione straziante, che sceneggiando “La visita” le faceva dire a sé stessa, facendo le prove dell’incontro col corteggiatore, «sono di statura media, ma ho il fianco alto che mi slancia», una battuta in cui c’è più io narrante che in tre quarti della letteratura di questo secolo.
Era una scena che mi diceva qual era la mia Sandra Milo. Quella di un film minorissimo di Risi, “L’ombrellone”, in cui è a Riccione, e il marito la raggiunge per il weekend, ma a lei importa solo dell’antiquario, il flirt col quale il marito fastidiosamente interrompe. Ma è un flirt a senso unico: per lei la gratuità della seduzione, mentre all’antiquario importa solo di venderle qualcosa; e insomma è sempre lei, la donna del Novecento prona al romanticismo e alle fregature, la Sandra che incarnava e ostentava, fino alla fine.
In “La bella confusione”, uscito l’anno scorso, Francesco Piccolo sintetizza così quel che Sandra Milo, che già aveva rifiutato per amore la parte di Gradisca in “Amarcord”, gli ha raccontato sessant’anni dopo aver riluttantemente accettato di girare “8 1/2”: «Parla come se la sua carriera di attrice fosse stata un accadimento affascinante, un’occupazione intanto che la vita amorosa si sviluppava. E quindi, quando dice che fece Otto e mezzo non per il film, ma perché era innamorata di Fellini, è semplicemente vero».
Ci siamo raccontati per tutta la vita, noialtri cresciuti nel secolo del pop e pieni di complessi culturali, che la storia del cinema la facessero gli attori trasformisti; siamo tutta la vita stati refrattari ai dati di realtà che dimostravano che, da Greta Garbo a Jack Nicholson passando per Vittorio Gassman, la storia del cinema la facevano quelli che sempre e comunque interpretavano sé stessi. I sé stessi di scena, con piccole variazioni.
La Sandra Milo trentenne che in “La visita” ha un album con le foto di tutti quelli che hanno risposto ai suoi annunci sentimentali, che cerca l’amore con la determinazione e la scientificità con cui nel secolo successivo avremmo cercato i like, è quella dello schermo ma anche quella della vita.
Quella di cui, novantenne, Piccolo scriverà: «Sandra Milo racconta che non avrebbe mai potuto dire di no a Fellini, anche perché dice di averlo conosciuto qualche anno prima a Fregene tramite Flaiano, e di essersene innamorata immediatamente. E quindi alla fine decide di accettare non solo, e non tanto, perché Fellini è diventato Fellini, ma perché continua a esserne sedotta. Tutto questo è epica, verità, non si sa: quello che si sa è che tra i due nascerà una storia lunga e tumultuosa». La vita, diceva quello, è sceneggiatrice: alla Milo aveva assegnato quel ruolo lì. E lei, professionista, l’ha replicato a vita.