In forza di una traslazione ormai irrevocabile, il termine “sionista” è spesso adoperato a mo’ di incolpazione, o proprio per insultare. Non che il fenomeno sia nuovo, giacché l’accusa di “sionismo” è secolare ed è formulata di volta in volta con intento e su presupposto di confronto politico e civile o con leggerezza discriminatoria: ma ormai, appunto, quell’addebito – “sionista” – ha preso il posto dell’ordinario insulto antisemita.
Le componenti motivazionali di questa perversione sono due, in qualche modo mischiate e di reciproco alimento. La prima: si tratta dell’adozione di un termine d’accusa non ancora interdetto. “Ebreo di merda”, infatti, è d’uso sbrigliato nella fogna social e, depending on the context, ha qualche buon margine di legittimità in certe lussuose strutture universitarie: ma insomma è, generalmente, considerato ancora bruttino.
La seconda motivazione è, banalmente, questa: la totale ignoranza del significato genuino di quel termine, “sionismo”. Che cos’è stato, su quali basi culturali e politiche e su quali ambizioni si è sviluppato, che cosa ha prodotto, quali forze e personalità l’hanno divulgato e testimoniato, eccetera. Tutte cose di cui chi fa uso di quel termine con pretesa diffamatoria non sa ovviamente nulla, senza che a spingerlo a sputare sul “sionista” sia la lettura dei Protocolli: dice così, “sionista”, come un rutto, giusto come la barzelletta razzista contro i neri è raccontata così, come un rutto, non perché il razzista che la racconta si è documentato su un saggio ottocentesco che spiega che i neri sono inferiori e puzzano.
Duplice la causa di quest’uso, è poi duplice la capacità offensiva che esso presenta. Essere sionisti, infatti, in un clima di informazione e culturale che inquadra in modo dovuto e non fuorviante, non diffamatorio, il sionismo, dovrebbe essere considerato un legittimo – quanto ovviamente discutibile – portamento civile, politico, tradizionale, eccetera.
Ma se “sionista”, per via di quella contraffazione diffamatoria, equivale a qualcosa di ignominioso, allora si assiste a un attentato identitario, alla degradazione morale della vittima dell’insulto cui è affibbiata una qualifica squalificante. Se dire “sporco negro” non è come dire “sporco elettricista” è perché non c’è stato un mondo in cui si spiegava che gli elettricisti erano inferiori e dunque dovevano stare in catene. La seconda portata offensiva è conseguente: se il sionista è un immorale, un criminale, o almeno un sostenitore della cospirazione usurpatrice, allora è gioco forza che sia esposto al giudizio e alla violenza di chi, legittimamente, avversa quel suo convincimento e l’ingiustizia su cui esso si fonda.
E il dato nuovo è questo, come si diceva all’inizio: che ormai la cosa, quanto meno presso alcuni, è passata, legittimata. E, non casualmente, questo processo di legittimazione va di conserva con quello che non denuncia l’illegittimità di una deliberazione governativa, di un’operazione militare, di un’occupazione territoriale, ma l’illegittimità ovunque della presenza ebraica. Una pretesa patentata dall’uso odioso e impunito di “sionista” al posto di “ebreo”: come dimostra, tra i moltissimi esempi cui abbiamo assistito, l’impunito comizio “antifascista” culminante nell’appello “Fuori i sionisti da Roma”.