«Un caffè, grazie». La più semplice, frequente ordinazione al bar in Italia oggi forse non è più così semplice. Sempre più spesso l’avventore si trova a dover scegliere tra caratteristiche inattese. No, non parliamo di specifiche come macchiato, corretto, decaffeinato, ma di definizioni precise, a volte altisonanti, non per tutti semplicissime da capire, che indicano la provenienza dei chicchi, il grado di tostatura, il tipo di estrazione e che vantano la qualifica di “specialty”. Il caffè in Italia sta cambiando, e con lui sta cambiando la percezione di chi lo beve: quella degli specialty coffee non è solo una moda, è una piccola rivoluzione di costume.
Una definizione
Ma cosa sono questi specialty coffee? «Sono caffè che provengono da una sola area e di cui si hanno tutte le informazioni. La definizione di specialty coffee parte quindi dalla tracciabilità, ma continua con la qualità: grazie al procedimento con cui sono trattati, infatti, specifico e diverso di volta in volta, questi caffè hanno caratteristiche sensoriali oggettivamente superiori. Non hanno difetti e devono avere punteggi altissimi nelle scale di valutazione». A spiegare è Giovanni Corsini, direttore di Caffè Agust, la torrefazione bresciana che, tra le prime a interessarsi a questi caffè quasi trent’anni fa, ha portato gli specialty in Italia.
«È stata un’intuizione di mio papà – racconta Corsini – anche se tutto ha avuto inizio con mio nonno, che ha fondato l’azienda nel 1956. E negli anni Settanta iniziò a viaggiare, più che altro per curiosità, per scoprire i luoghi in cui il caffè nasceva. In Italia non si sapeva nulla delle origini del caffè, arrivavano i chicchi e ci si limitava a tostarli e a venderli. Ma lui voleva conoscere e capire, così per lungo tempo viaggiò. Il bagaglio delle esperienze che si portò a casa lo spinse a fondare insieme a mio padre e un altro piccolo gruppo di torrefattori, nel 1996, una associazione (Caffè Speciali Certificati) che certificasse la provenienza e la tracciabilità del caffè di piccoli produttori. Produttori che fino a quel momento vendevano a grandi gruppi: il loro prodotto risultava declassato. Di qui l’idea della nostra famiglia che, consapevole che questi caffè erano di qualità superiore, si offriva di acquistarli a un prezzo più elevato, in modo da controllare tutta la filiera. Così si sono create le basi per la diffusione degli specialty coffee in Italia».
Una realtà che negli Sati Uniti era già presente da anni, forte di una cultura del caffè diversa, «forse meno presuntuosa ma più curiosa rispetto alla nostra. E anche quando iniziammo a portare qui gli specialty coffee non c’erano le competenze che ci sono oggi, né i macchinari. Si usavano i caffè semplicemente per preparare l’espresso tradizionale».
Strano non significa buono
Oggi sono sempre più numerose le caffetterie che offrono questa tipologia di bevanda, e la preparano con metodi di estrazione diversi, mirati a migliorare il risultato finale, ma anche con una grandissima attenzione alla preparazione: «La mano di chi fa il caffè può alzare il valore della materia prima, ma può anche rischiare di rovinarla. Per questo ci vuole attenzione e competenza nella realizzazione e nella conservazione».
Competenza che si va diffondendo non solo nei bar, ma anche negli stessi consumatori, che non si limitano all’ordine al bar, ma spesso comprano caffè speciali da preparare a casa. «Che i caffè di qualità si diffondano – commenta Corsini – è senz’altro un bene, come è un bene che si alzi la consapevolezza del consumatore. Esiste però un rovescio della medaglia, ed è la tendenza a fare cose volutamente strane, a fare a gara a stupire. Un esempio? Le fermentazioni troppo spinte. Bisogna sempre trovare un equilibrio. Bisogna evitare che il punto di riferimento diventi lo “strano” al posto del “buono”. Un’altra tendenza a cui prestare attenzione è quella dei caffè “infusi”, completamente diversi dagli specialty coffee perché realizzati con l’aggiunta di aromi: non è il caffè ad avere per sua natura quelle note, ma è un’aggiunta aromatica fatta per stupire, magari usando come base un caffè banale».
È un mondo complesso, a cui non è semplicissimo accostarsi per la prima volta: da consumatori siamo abituati all’espresso tradizionale, che «spesso ha dei difetti, note amare, di terra, non proprio gradevoli. Ma se ci si concede di sperimentare qualcosa di diverso, il nostro palato riconosce il buono: bastano pochi giorni, non servono mesi di allenamento, e si fa l’abitudine a qualcosa che è oggettivamente buono». Dove per oggettivamente si intende qualcosa che risponde a precise categorie aromatiche, positive o negative. Sono quelle che alzano o abbassano il punteggio nella valutazione di un caffè: «L’aroma floreale può piacere o meno, ma è oggettivo che sia positivo, mentre gli odori di muffa sono negativi».
E se l’inizio può essere un ostacolo (soprattutto a livello mentale), Corsini consiglia di istituire un paragone con la propria quotidianità: «Se sono abituato alla moka, posso provare a farmi la moka con un prodotto diverso. Se al bar prendo l’espresso, posso provarne uno diverso, procedendo in parallelo in base alla tipologia di bevanda cui si è abituati, per non togliere i punti di riferimento. Così, per chi non ha mai provato consiglierei un caffè centro sudamericano lavato, che non sia troppo diverso dalla tradizione, ma sia bilanciato ed evoluto: scelte troppo spinte possono provocare un rigetto. Bisogna procedere per gradi, ma una volta che ci si abitua, si sceglie quello che più piace e non si torna più indietro. Anche per quanto riguarda l’espresso, in cui noi crediamo moltissimo».