Il nome, innanzitutto: si dice cachi, sempre. Al singolare come al plurale; che si parli della pianta o del frutto. Il cachi – che in alcune regioni, come ad esempio la Toscana chiamano anche diòspiro o diòspero e in Campania lignasant, legna santa, perché, tagliando il frutto a metà apparirebbe l’immagine di una croce con Cristo crocifisso – arriva dal Giappone e ha mantenuto il nome originale, kaki (柿), noto anche come loto del Giappone. Diospero, invece, è il nome scientifico assegnatogli da Linneo nel Settecento, Diòspyros kaki. Per inciso, una varietà della stessa numerosa famiglia della pianta da cui si ottiene un legno di grande pregio, l’ebano.
Nel mondo, è più conosciuto con il termine inglese persimmon e, dal 1945, come “albero della pace”, in quanto alcune piante di kaki sono sopravvissute alla bomba atomica che colpì Nagasaki.
Forse qualcuno si sarà chiesto come mai, essendo i cachi di un bell’arancione squillante, quando si tratta del colore il termine indichi una sorta di beige verdolino polveroso, tipico dell’abbigliamento militare. In effetti, anche se la parola è la stessa, l’origine è del tutto diversa e viene dall’ inglese, khaki, a sua volta derivato dall’indostano kaki, che vuol dire color polvere e nasce dal persiano khâk, polvere. Era, in origine, il colore delle uniformi militari inglesi in India.
Il cachi, nel senso dell’albero, è originario dell’Asia orientale ed è una delle più antiche piante da frutta coltivate dall’uomo, conosciuto da oltre duemila anni in Cina, dove era definito “albero delle sette virtù”, ovvero la longevità, l’ombra, la mancanza di nidi, l’assenza di tarli, il verde delle foglie, la resistenza al freddo, la creazione del concime con i frutti caduti.
La coltivazione si diffuse prima in Giappone e poi in Europa, alla fine del diciottesimo secolo. Il primo esemplare impiantato in Italia pare fosse stato posto a dimora attorno al 1870 nel giardino fiorentino di Boboli e i suoi frutti trovarono un estimatore illustre in Giuseppe Verdi. Si conserva ancora la sua lettera di ringraziamento ai Fratelli Ingegnoli, proprietari di una ditta di giardinaggio fondata nel 1817 e primi a importare a Milano gli alberi di cachi, per avergli inviato, nel marzo 1888, una cassettina con sei frutti alla sua tenuta agricola di Sant’Agata, a Villanova sull’Arda, vicino a Piacenza, dove si dedicava con passione al giardinaggio e all’agricoltura.
La produzione mondiale di cachi, circa cinque milioni di tonnellate, per oltre la metà è concentrata in Asia, soprattutto in Cina, ma anche in Giappone, Corea, Turchia e Brasile. In Italia, dove i primi impianti specializzati nel salernitano risalgono al 1916, è noto da oltre centocinquant’anni e non è più considerato un frutto esotico. L’Emilia-Romagna e la Campania garantiscono il novanta per cento dei raccolti, per una produzione totale di 515.650 quintali (dati 2019).
Le varietà coltivate sono oltre quattrocento, ma in Italia si trovano soprattutto il Loto di Romagna, la Vaniglia della Campania, il Fuyu, la Kawabata, il Cioccolatino. Per quanto riguarda la consistenza e il sapore, la principale distinzione è tra i frutti a polpa morbida, di consistenza quasi cremosa, e i cosiddetti cachi-mela, con una polpa soda e compatta, che si può tagliare a fette.
Anche se la sua diffusione è aumentata nel corso del tempo, il cachi è ancora un frutto sottoutilizzato e questo è male, perché, con una composizione di circa ottanta per cento di acqua, otto per cento di zuccheri, 0,45 per cento di proteine, 0,5 per cento di grassi, una discreta quantità di vitamina C e del gruppo B, beta-carotene e potassio, è una fonte di benessere.
Negli ultimi due decenni, inoltre, la ricerca scientifica ha messo in evidenza la presenza e il ruolo di molecole bioattive come proantocianidina, carotenoidi, tannini, flavonoidi, antocianidina, catechina. In base a queste ricerche i cachi e i loro prodotti sono considerati efficaci nel mitigare il danno ossidativo indotto dalle molecole reattive dell’ossigeno (ROS), con un potenziale antiossidante ad azione anche anticancerogena e di contrasto a disturbi cardio-vascolari e diabete mellito.
Mangiare cachi fa bene, quindi, e ci sono mille modi di gustarli: al naturale, facendo attenzione che siano maturi al punto giusto perché altrimenti “legano i denti” e possono avere un indesiderato effetto astringente; ma anche come ingrediente di dolci, marmellate, gelati, e persino in alcune ricette salate.
Infine, è anche un frutto adatto ai tempi. Il cachi, infatti, è considerato una specie subtropicale, anche se alcune varietà riescono a tollerare temperature invernali fino a meno quindici gradi centigradi. Per questa versatilità e resilienza il cachi è considerato ideale per coltivazioni in grado di adattarsi ai sempre più pressanti cambiamenti climatici indotti dal riscaldamento globale.