In questa settimana trascorsa – come tutti quanti – a fare ipotesi su come andrà l’apparizione di Chiara Ferragni da Fabio Fazio, ho pensato (anche) a quel che dice Paolo Virzì degli attori. In questo weekend trascorso – come tutti quanti – a commentare l’intervista di Chiara Ferragni al Corriere, ho pensato (anche) alla differenza tra Brad Pitt e Robert Downey jr.
Ma, soprattutto, in questi giorni impazziti in cui addirittura si parlava di andare in edicola a comprare un giornale, neanche fosse la settimana prima di Sanremo e ci fosse il Sorrisi coi testi delle canzoni, io ho pensato molto a Pio XI. O forse era il dodicesimo, ora non pretendete troppo: sono pur sempre della generazione che al fascismo non ci arrivava col programma.
Tempo fa uno storico caritatevole tentò di colmare le mie lacune (le mie voragini), ma di tutto quel che mi ha raccontato tentando di fare di me un’adulta istruita io ricordo solo le irrilevanze (che come sappiamo sono rilevantissime).
Nei giorni precedenti all’uscita dell’intervista al Corriere, quando mi raccontavano che, tra le molte riletture e trattative legali e tira-e-molla che hanno prodotto le due pagine più noiose della storia del giornalismo, tra tutti i cavilli spiccava un veto, in quella vigilia io ho pensato a quel dettaglio che mi era rimasto impresso.
Il veto era della Ferragni: il nome del marito non poteva comparire nel titolo dell’articolo. Il dettaglio era: Mussolini che manda veline ai giornali con l’ordine «poco Papa». Se Chiara Ferragni fosse ancora Chiara Ferragni, sarebbero delle magliette di Dior stupende: «We should all be able to impose “poco Papa”».
Sia chiaro: Chiara Ferragni ha ragione, a non voler parlare d’una notizia che non c’è, d’una sparata che viene trattata da quattro giorni come una notizia solo perché è la sparata d’un sito che i giornali si tengono buono un po’ perché non racconti i loro altarini e un po’ perché gli torna comodo per i loro regolamenti di conti.
Epperò Chiara Ferragni non può che venire triturata dal meccanismo, che a questo punto è ineluttabile. Se lei e il marito non si separeranno (e il mio soldino viene scommesso su quest’ipotesi), l’esito reputazionale non sarà: ah, quindi i giornali si sono dimostrati una volta di più inattendibili; l’esito reputazionale sarà: ma tu guarda questi truffatori che hanno simulato la separazione per intenerirci.
Lo so che bisognerebbe fingere di pensare tutte le cose da gente perbene che pratica quel feticcio contemporaneo che è l’empatia, dire che i poveri figli piccoli, dire che comunque la sofferenza, dire che è una brutta fatica. Ma la vera verità è che, frequentando solo persone che non conoscono la famiglia Ferragni, io vedo solo gente che sta passando questi giorni a sghignazzare del paradosso: non si lasceranno, e verranno per questo linciati. Pensa che film strepitoso ci avrebbe girato un Woody Allen cinquantenne.
O forse ci vorrebbe un regista di quelli che amano i flashback e gli universi paralleli. È la primavera del 2022, si dice che Chiara Ferragni stia per lasciare il marito a causa d’una cotta per Tomaso Trussardi, al marito trovano un cancro, immancabili battute dei saperlalunghisti sul tempismo maritale nell’ammalarsi. È l’inverno del 2024, un portavoce della Ferragni smentisce ch’ella abbia una relazione con Trussardi. Ma che è, il fuso orario, il riepilogo delle puntate precedenti, l’adulterio della marmotta?
Poco Papa ma molto pandoro, nell’intervista del Corriere che, oltre a Candida Morvillo, firmava un giornalista della cronaca giudiziaria, creando uno dei più grandi misteri di questo decennio. Il giudizio dell’antitrust è arrivato dopo un anno di perquisizioni, sequestri di carteggi tra staff dei pandori e staff della Ferragni, indagini varie. Quando Chiara Ferragni pitta la scenetta di lei che all’arrivo di questo giudizio è stravolta e sorpresa e cade dalle nuvole, a che serve avere lì il cronista di giudiziaria?
Dovrebbe servire a dirle: signora Ferragni, abbia pazienza, non può essere andata così. Nessuno in quelle due pagine glielo dice. Oppure a dirle: mi scusi, ma se in un anno i suoi avvocati non le avevano detto nulla delle procedure, dell’esito possibile, delle mail da cui non usciva benissimo, ecco, questi avvocati presentavano delle parcelle o si accontentavano del «supplied by»? Nessuno in quelle due pagine glielo chiede.
Non pagare mai niente, una vita di supplied by, ha delle conseguenze in termini qualitativi. Solo che, se non vuoi pagare gli arredi, ti ritrovi con dei divani orrendi e pazienza (per me sarebbe inaccettabile, ma insomma ognuno ha le sue priorità); ma, se non vuoi pagare gli avvocati, poi ti ritrovi in questo casino.
Hanno tutti detto che la Ferragni da questo casino aveva imparato, aveva capito che a volte serve un bonifico e non basta un tag, hanno tutti scritto che aveva assunto il tal studio legale e il talaltro ufficio per la comunicazione. Però, a un certo punto dell’intervista al Corriere, riletta per cinque giorni da avvocati e comunicatori e rave e fave, le fanno dire «La mia ratio è sempre stata che», e dico: ce l’avete un po’ di orecchio per il dialogo?
«La mia ratio» lo dice una che si mette nella bio di Twitter il voto della laurea di venticinque anni prima, non la Ferragni. La Ferragni, se le metti davanti un rigo con scritto «La mia ratio», legge la parola latina come fosse inglese. E non lo dico con lo sprezzo di chi ha illusioni circa la superiorità degli studi classici: il latino, ha detto una volta Claudio Giunta, è sempre un crampo dell’intelletto.
Detto peggio: poche cose sono più da analfabeti che usare il latino – ma è un analfabetismo diverso da quello coerente col personaggio Ferragni, col suo lessico, con la sua voce.
Quella ogni giorno usa «super» come rafforzativo di qualunque stato d’animo, e il povero lettore del Corriere dovrebbe crederla non più super preoccupata e super onesta e super attenta a non fare altri errori, ma trasformata nel Paul Giamatti di “The Holdovers”, tutt’un Rubicone e una guerra punica di qualunque cosa si stia parlando.
Non so a quali mirabili professionisti paghi ora parcelle la Ferragni, ma non ci voleva un principe del foro: bastava un praticante che avesse visto quattro video, per sapere che la Ferragni era plausibile semmai dicesse «pov», mica «ratio». (Adesso arrivano a spiegarmi i registri lessicali quelli che non li capiscono, e mi dicono che in un’intervista istituzionale parli diversamente da come parli in un filmino su TikTok).
Anni fa, in una delle tavole rotonde tra candidati che l’Hollywood Reporter organizza a ogni stagione dei premi cinematografici, c’erano Brad Pitt e Robert Downey jr. Pitt fece una tirata sul fatto che lui mai nella vita si sarebbe cercato su Google, gli pareva inconcepibile. Era patetico, aveva l’aria disperata di chi vuole acquisire punti-stile, guardami, non m’interesso a cosa dicono di me.
Il già penoso tentativo di posizionamento venne definitivamente ucciso da Downey che disse solo: ah, io invece mi googlo in continuazione. Mi è tornato in mente quando sono arrivata a uno dei due punti interessanti dell’intervista, quello in cui la Ferragni dice che lei cerca in continuazione cosa dicono di lei. Lo dice molto generosamente, svoltando il sabato a tutte le Vongola75 che possono così scrivere «che cosa ridicola, ma ti rendi conto, si cerca», sentendosi superiori, protette dal loro appartenere ai felici molti che se si cercassero non troverebbero niente, e quindi possono fare i blasé come Brad Pitt, ma senz’essere Brad Pitt, senz’essere neanche una comparsa sullo sfondo d’una scena girata dall’osso del fianco di Brad Pitt.
L’altro punto interessante dell’intervista è quello in cui la Ferragni dice che quei quattro spicci che Balocco ha dato all’ospedale avrebbe potuto prenderli lei, fatturando un milione e cinquantamila invece d’un milione, e che comunque se lei non avesse fatto quel contratto l’ospedale non avrebbe preso neanche quei soldi. È una rivendicazione più mite di quella che invocavo, ma è pur sempre una rivendicazione.
Mancano sei giorni a Fazio, e io ogni volta giuro che questa è l’ultima volta che scrivo della Ferragni, ma la cattiva sorte sbrilluccica più della buona, attirando noi gazze che arrubbiamo le vite degli altri.
Giorni fa un uomo saggio mi ha detto che secondo lui l’ospitata di domenica prossima non sarà il disastro che pronostico io, che Fazio la riabiliterà presso le professoresse democratiche convincendole che c’è stato troppo accanimento, che è il nuovo Costanzo e quest’operazione somiglia a quando Costanzo recuperò Fiorello dalla coca e dall’oblio professionale.
In una stupenda intervista orale (o podcast, come si dice in neolingua) che ha dato a Malcom Pagani, Paolo Virzì dice che lui non riesce a non essere protettivo nei confronti degli attori, della loro fragilità, della loro vulnerabilità, perché «è l’unico mestiere, l’unica professione artistica, dove non si vende un disegno, una pagina, una canzone, ma si vende la propria persona». È la spiegazione perfetta della differenza tra Chiara Ferragni e Fiorello.
Quello aveva un talento, e quindi la possibilità di dimenticare e far dimenticare le proprie sfighe o i propri errori. Certo che di Liz Taylor e Richard Burton c’interessavano precipuamente le corna e i litigi e le sbronze, ma la ragione per cui avevamo contezza della loro esistenza era che avevano un mestiere, e il loro mestiere diventava “Chi ha paura di Virginia Woolf?”: i rotocalchi erano un intrattenimento di risulta, non la loro attività principale.
A Chiara Ferragni i rotocalchi non servono (ma neanche i giornali per così dire seri, ma neanche gli inviati della tele sotto casa: i mezzi di comunicazione non autogestiti hanno già da qualche anno più bisogno di lei che viceversa), ma per il resto è una Liz Taylor senza filmografia e senza talento. Per lei l’unico mestiere è la messa in vendita della sua vita: se non ha più la possibilità di fare quello, qual è il piano B?
Per un Luca Argentero che esce dal “Grande Fratello” e riesce a diventare un attore che lavora stabilmente a un certo livello, ci sono decine, centinaia di disgraziati il cui sostentamento dipende dalla tenacia di continuare a vita a vendere la propria vita. Di Pietro Taricone ce n’era uno, tutti gli altri se scendono dalla giostra te li dimentichi: veramente pensavate che per quel reality autogestito che è Instagram fosse diverso? Uno su mille ce la fa, ad avere successo in un lavoro vero, ma è perché stava su Instagram come Taricone stava su Canale 5: per caso, di passaggio.
Il piano a medio termine di Chiara Ferragni qual è? Non l’ha capito nessuno (temo neanche lei), e non perché non ci abbiamo tutti pensato abbastanza (avessimo pensato altrettanto alle cose serie, saremmo pieni di premi Nobel). Perché una soluzione non c’è: mica può smettere di vendere la sua persona e vendere un disegno, una pagina, una canzone – non credo sappia cantare o scrivere o disegnare.
E come le convinci, le multinazionali, a tornare a pagarti per accostare la tua persona ai loro prodotti? Non ne ho idea. So che è un mondo diverso da quello in cui Costanzo ci costringeva a renderci conto dei talenti di Fiorello, so che è talmente cambiato tutto che forse Chiara Ferragni è il livello di talento che questo secolo si merita, ma non ho alcun dubbio che Fiorello di ingaggi ne troverà sempre, mentre non riesco a immaginarmi come possa Chiara Ferragni tornare a fatturare. È, assieme al modo in cui il pubblico penserà che il suo non divorziare sia una colpa, lo spettacolo che sarà più interessante osservare nei prossimi mesi. Se avesse il talento per la svergognatezza di Kim Kardashian, Ferragni ne caverebbe finalmente una stagione interessante del reality su Prime. Invece temo che sia impossibile, almeno quanto lo era che desse un’intervista che non sembrasse un verbale. Nonostante tutto, resta una brava ragazza di Cremona: zavorrata dalla priorità piccina e fuori tempo del non fare brutta figura.