Quella di abbinare cibo e bevande secondo principi socialmente condivisi è una pratica centenaria – che un tempo era più semplice, spontanea e banale (si veda la classica scelta del vino rosso per i piatti di carne, e del bianco per quelli a base di pesce, rimasta esclusiva fino al secolo scorso) – oggi sta vivendo un radicale ripensamento, dovuto tanto all’arricchimento della proposta culinaria degli chef di ultima generazione, quanto alla crescente e mirata ricerca sulla capacità di spirits, liquori, bitter e fermentati di accompagnare ed esaltare una cucina sempre più sperimentale, avanguardistica e provocatoria.
Il risultato è la recente affermazione dell’abitudine a pasteggiare a cocktail, che fa storcere il naso a sommelier e puristi del pairing cibo-vino e suscita diffidenza anche in coloro che non avrebbero difficoltà a bere Coca-Cola con qualsiasi pietanza (dall’hamburger all’aragosta).
Eppure il cocktail pairing (un tempo considerato un’eresia riservata ai Paesi senza una cultura enologica) sta aprendo la possibilità di creare infiniti abbinamenti tra food e drink, molti dei quali insoliti, particolari e sorprendenti, permettendo a chi di gusto se ne intende di vivere – al tavolo come al bancone – esperienze molto più profonde ed elevate rispetto al passato.
In vino veritas, in cocktail novitas
Bere miscelato durante il pasto implica da un lato il superamento dell’abbinamento classico tra vino e cibo e dall’altro la rivalutazione dei cocktail, considerati non più come bevanda ludica da consumare come pre o after dinner, bensì come bevande (alcoliche o meno) capaci di equilibrarsi con uno o più piatti. Lo scopo del drink, proprio come avviene per il vino (o le birre con una certa personalità, in cui è presente una parte amara data dai luppoli), non è tanto quello di dissetare ma piuttosto pulire e risvegliare il palato invogliando a un nuovo boccone, esaltare i sapori del cibo e svelarne sfumature di gusto che altrimenti non sarebbero percepite.
Al tempo stesso, il gusto di ciò che mangiamo mantiene una propria identità caratteristica, facendo del beverage un co-protagonista della degustazione. Paradossalmente, proprio grazie alle ampie possibilità offerte dall’arte della mixology di creare dei drink su misura per ogni piatto, giocando con un mix di spirits, bitter, succhi, sciroppi, spezie e aromi, l’allineamento tra cucina e cocktail può persino essere più semplice di quello con un vino o una birra dotati di una struttura e di una personalità proprie. Tutto sta nell’uso sapiente degli ingredienti e in un lavoro sinergico tra fornelli e bar, che devono conoscersi e dialogare alla perfezione.
Armoniosi contrappunti: dietro le quinte del pairing
Come per ogni declinazione del food pairing (inclusi vini, birre, tè, infusi, sakè, kombucha e così via), anche l’abbinamento con i cocktail può seguire due criteri antitetici: la similitudine o il contrasto. Nel primo caso si accostano piatti e drink contenenti aromi che si somigliano, si rincorrono o si nobilitano l’un l’altro (un po’ come avviene con il classico accompagnamento del dessert con vini dolci); nel secondo si cerca la contrapposizione e si gioca sulla dissonanza di gusti, per azzardare alla creazione di sensazioni completamente nuove per il palato, tanto rischiose quanto sorprendenti.
Una regola generale è che i drink pensati per essere sorseggiati a tutto pasto devono essere bevibili e non troppo alcolici (con una grammatura di alcol media per porzione che va da 1,2 a 1,8 grammi e corrisponde a quella di cento millilitri di vino o di una pinta di birra). Quelli più indicati sono a base di vino (dallo spumante al vermut), ma spetta al bartender il compito di trovare il giusto equilibrio tra gusto e gradazione, giocando con la parte analcolica, i succhi freschi e gli sciroppi, per stemperare gli spirits che, seppur in dosi moderate, restano i protagonisti del bere miscelato, anche a tavola.
Un altro fattore da considerare è che la presenza nel drink di zuccheri ed elementi grassi (come latte di cocco o panna) altera la percezione della fame. Pertanto i cocktail troppo dolci o “pesanti” non sono adatti al pasteggio perché fanno passare l’appetito ed è meglio puntare su drink molto secchi (come Gin Tonic o Martini Cocktail) oppure su miscele create ad hoc che sfuggono ai modelli di bilanciamento classico, privilegiando la parte acida o amara (ma anche minerale o piccante e) rispetto alla componente dolce.
Il barman è… un sommelier che si diverte di più!
Il pairing basato sui cocktail è più versatile e divertente rispetto all’abbinamento vino-cibo, perché può far sposare infiniti ingredienti in innumerevoli combinazioni, anche estemporanee e tailor-made, cioè “realizzate su misura” per assecondare i gusti del cliente, seguendo nuove regole di abbinamento che prendano le distanze da concetti e principi formulati per il pairing con un’altra bevanda come il vino.
In più il barman può scegliere tra due alternative: la prima, mantenersi nel solco della tradizione e delle ricette codificate, capendo quali tra i drink classici siano più adatti a ogni tipologia di pietanza e poi a fare variazioni sul tema modificando l’equilibrio tra i componenti. Per esempio sperimentando con le spezie e gli aromi del classico Gin Tonic o con le tipologie di Vodka dell Moscow Mule, per declinarli in versioni adatte a sposarsi con carni rosse, formaggi, salumi, fritti, pesce, piatti veg o dolci.
La seconda, formulare ricette ex novo, capaci di adeguarsi alla velocità con cui cambia l’offerta di una cucina sempre meno convenzionale, spesso di ispirazione esotica o fusion, ma anche di accompagnare grandi piatti della tradizione (dalle zuppe di pesce all’anatra, dalla cucina veg alla pizza).
Quanti pairing vi è capitato di provare, abbinando cocktail e cibo? Ne siete rimasti soddisfatti? Il prossimo articolo sarà il racconto delle nostre esperienze, dopo essere andati in giro per la città e aver provato alcune delle proposte secondo noi più interessanti.
Foto Credits Eaters Collective, Jia Jia Shum