L’esercito europeo non si farà mai. È bene partire da questa indiscutibile realtà per impostare l’indispensabile ricerca di una risposta europea all’ipotesi che Donald Trump venga rieletto. Se così sarà infatti, l’Europa si troverà probabilmente priva del ferreo scudo di protezione americano che ne ha garantito la sicurezza dal 1945 in poi. Trump è chiarissimo, non solo ha annunciato che, con lui presidente, la Nato non difenderà gli Stati che non contribuiscono sufficientemente al budget dell’Alleanza, ma che addirittura inviterà la Russia a invaderli. Una provocazione che, al di là dei problemi di budget, sottende la sua esplicita volontà di terminare di fatto la protezione americana del Vecchio Continente nel nome di un isolazionismo americano che ha una tradizione secolare.
A fronte di questa minaccia concretissima l’Europa è oggi costretta, con enorme ritardo, a dotarsi di strumenti autonomi di difesa comune. Non il tanto citato esercito europeo, per una ragione strutturale: non esiste e non è alle viste un effettivo governo europeo – federale o confederale che sia – tanto che a tutt’oggi la politica estera, che decide dell’impiego dell’eventuale esercito europeo, non è affatto materia comunitaria, ma è gestita in modo tutt’altro che omogeneo da ognuno dei ventisette Paesi membri.
Un esercito europeo impone il comando di un vertice politico assolutamente unico, gerarchico e univoco che disponga regole d’ingaggio e operative precise e non ambigue. Un comando monocratico che non può essere esercitato con decisioni assembleari. In democrazia, deve essere autorizzato dai Parlamenti, espressione della sovranità popolare. Ma, una volta autorizzato, deve essere sotto un rigido comando unico. Comando che oggi in Europa è addirittura disomogeneo dal punto di vista istituzionale, in Francia come in Italia, il comando delle Forze Armate è prerogativa del Presidente della Repubblica, in Germania, Stato federale, in tempo di pace, il comando delle Forze Armate è del ministro della Difesa, in tempo di guerra, del Cancelliere. In Spagna, una monarchia, il comando delle Forze Armate è prerogativa del re, istituzione non elettiva. In altri Paesi europei il comando è, vuoi prerogativa del Capo dello Stato, vuoi del premier.
Un quadro istituzionale composito, ancora una volta, che peraltro nessuno ha mai tentato di armonizzare. La domanda “chi è il commander in chief?” dell’esercito europeo è destinata a non avere mai risposta.
Proprio questa unicità obbligata del comando e della gerarchia militare è infatti la ragione del fallimento di tutti i pluridecennali tentativi di costituire un esercito europeo sin dagli anni Cinquanta. Costituirlo, infatti obbliga a costruire prima o contemporaneamente uno Stato Europeo, e in questo Stato, obbliga a definire una figura istituzionale unica che eserciti in modo monocratico il potere militare, che dia gli ordini operativi, dopo la delega del parlamento. E va ricordato che tuttora il Parlamento europeo non ha potere legislativo, ma solo di chiedere alla Commissione di emettere una legge che poi, in seconda battuta, approva.
Il punto, dunque, è che nessuno Stato europeo, in primis quello francese – e senza la Francia, unico Paese continentale dotato di armamenti nucleari, non c’è Europa – ha mai accettato di delegare, se non a sé stesso, il più scabroso e complesso esercizio della sovranità nazionale: inviare in guerra propri cittadini a uccidere e a farsi uccidere.
Scartato dunque il cammino verso un esercito europeo che pretende un’unificazione politica che non è assolutamente all’ordine del giorno, il vecchio continente può far fronte alla possibile decadenza della protezione americana e a una Nato a rigido comando statunitense in preda all’isolazionismo trumpiano, seguendo strade pragmatiche.
Innanzitutto, ma con grande ritardo, omogeneizzando i sistemi d’arme, oggi assolutamente disomogenei tra ventisette nazioni che privilegiano le commesse alle singole industrie militari nazionali alla necessità di disporre di un armamento integrato. Una situazione dalle conseguenze caotiche: un report del 2020 della Agenzia Europea della Difesa illustra non solo che gli Stati europei acquistano in comune armamenti solo per 4,1 miliardi di euro, ma anche che questa somma è precipitata dai 6,3 miliardi di euro di acquisti militari in comune del 2008. Ma quel che conta è che quei 4,1 miliardi di euro sono letteralmente un nulla a fronte di un budget europeo per la Difesa che nel 2020 è stato di centonovantotto miliardi di euro e oggi, dopo la guerra in Ucraina, sorpassa i trecento miliardi. Da alcuni si suggerisce il lancio di un debito europeo finalizzato a spese comuni per la difesa, così come il non calcolo delle spese militari nel computo dei parametri del patto di stabilità. Ma sono pure ipotesi, che non hanno avuto alcun seguito pratico.
La ragione del radicato sovranismo nelle spese militari è peraltro semplice: Francia, Italia, Svezia e Germania hanno grandi industrie nazionali di armamenti e ovviamente le loro Forze Armate preferiscono acquistare dalle industrie nazionali. Vi sono alcuni progetti comuni per un nuovo carro armato e un nuovo jet da caccia europei, ma sono progetti con mille traversie e ritardi, tanto che l’Istituto per gli Affari Internazionali ha pubblicato un interessante studio dal titolo definitivo, “I costi della non-Europa della difesa”, nel quale si fa, tra l’altro un paragone interessante. Là dove negli Stati Uniti si contano undici piattaforme per gli armamenti di terra, aria e mare, in una Europa che è un non-Stato se ne contano ben trentasei, più di tre volte tanto. Una disomogeneità caotica con grande impatto sul piano militare operativo.
Accanto a questo indispensabile, ma lento, processo di integrazione effettiva degli armamenti e all’incremento delle spese militari di ogni singolo Paese al due per cento del Pil (punto su cui si scatena l’ira di Donald Trump) è indispensabile ovviamente che si crei un nucleo duro di Paesi con una politica estera omogenea. Obiettivo non facile, perché persino la Francia e la Germania, indispensabili alla formazione di questo nucleo duro, hanno spesso politiche estere divergenti. Non divergenti nei confronti della Russia, dopo l’invasione dell’Ucraina, ma sicuramente disomogenee nei confronti del secondo e terzo fronte di una difesa europea degna di questo nome: i Paesi africani e il Medio Oriente.
Mentre è relativamente facile stabilire intese militari convergenti per arginare l’espansionismo russo affiancando ad esempio i Paesi dell’est europeo a Francia, Germania e Polonia, il cosiddetto “triangolo di Weimar”, è impresa più che ardua proiettare una forza armata europea in Medio Oriente e in Africa, gli altri due scenari di interesse strategico primario per l’Europa.
Lo si è ben visto per l’ennesima volta con l’intervento per contrastare la volontà degli Houti di bloccare col lancio di missili lo stretto di Bab el Mandeb. Nonostante una decisione comunitaria comune, i pochi i Paesi europei che si sono fatti avanti hanno inviato una flotta tra molti distinguo. Non solo, le regole d’ingaggio delle navi militari europee impegnate sono rigidamente difensive, quindi largamente inefficaci e l’indispensabile attacco alle basi militari Houti è stato lasciato dall’Europa come compito esclusivo degli Stati Uniti e della Gran Bretagna.
Comunque, il cammino verso una difesa europea probabilmente orfana dello scudo americano e di una Nato sotto il controllo politico dell’isolazionismo americano di Donald Trump, deve essere intriso di sano pragmatismo: accordi variabili, scenario per scenario, tra un numero limitato di Stati con politiche estere omogenee e capacità di intesa su chi esercita il comando politico militare. Un percorso difficile su cui l’Europa è dannatamente in ritardo.