“Territorio”. È una parola di ferro che abbiamo trasformato in parola di plastica, impiegata meccanicamente e senza chiari riferimenti a specifiche realtà geografiche, culturali, o sociali. E si tratta di un peccato che gli articoli giornalistici condividono con i discorsi politici, in cui il “territorio” diventa un mezzo per fare appello al senso di appartenenza (a cosa?) degli elettori, mezzo non necessariamente supportato da un piano concreto di sviluppo o di tutela; non mancano i documenti burocratici e le relazioni di organizzazioni e istituzioni, in cui il “territorio” diventa un jolly carico di formalità e altrettanto privo di peculiarità. Come dimenticare le campagne di marketing, perfette per evocare quell’idea romantica e idealizzata di un luogo spesso privo di contesto.
È proprio il contesto in cui il territorio si inserisce che può e deve liberare questa parola dal suo significato promozionale e ridarle valore: questo è il presupposto dell’opera di zonazione completata dal “Map Man” Alessandro Masnaghetti su richiesta del Consorzio per la tutela del Franciacorta. E così la Carta dei Vigneti e delle Zone che ne risulta non vuole offrire una visione enocentrica di queste terre, bensì ricordare a consumatori e produttori che la Franciacorta non è fatta solo di vigne, ma anche di uomini e tradizioni.
134 sono le zone identificate all’interno della Docg bresciana, che non vanno confuse con le Menzioni o Unità Geografiche Aggiuntive in vigore in altre denominazioni (come Barolo, Barbaresco e Chianti Classico), dal momento che ancora non fanno parte del disciplinare. Masnaghetti ci tiene inoltre a evidenziare che questo lavoro di delimitazione non sottintende alcun intento di classificazione, e che il numero apparentemente elevato di unità geografiche individuate è la “semplice” espressione di un paesaggio che trova riscontro nei costumi locali, ma non solo. Perché la Franciacorta – pur non vantando una grande tradizione di vini da singolo vigneto – può esibire con orgoglio un tesoro poco noto anche agli esperti di settore: il catasto napoleonico redatto tra il 1807 e il 1809, realizzato nel medesimo biennio anche in Francia e sfociato nei famosi lieux-dits tanto citati quando si parla di Borgogna.
Questa preziosa fonte archivistica è tornata alla luce circa dieci anni fa grazie al lavoro di Paolo Oscar del Centro studi e ricerche dell’archivio bergamasco, che su lungimirante iniziativa del Consorzio ha digitalizzato i contenuti informativi dall’originario supporto cartaceo. Il catasto – che per ciascuna particella indica il possessore, la denominazione, la destinazione d’uso (agraria e non) e la superficie – si correda di un rigoroso apparato cartografico che lo rende uno strumento operativo capace di relazionare i dati storici con il presente, gettando le basi per l’importante lavoro di zonazione portato a termine da Masnaghetti.
Il tracciamento dei confini ha richiesto tuttavia una certa elasticità, volta a conciliare la storia con la toponomastica e le tradizioni attuali, ma anche con ragioni di ordine pratico, quali la necessità di minimizzare lo sconfinamento di un’unità geografica da un comune all’altro, a meno di testimonianze storiche precise. Allo stesso tempo, Masnaghetti ha cercato di evitare che la demarcazione tra zone adiacenti finisse per frammentare un singolo vigneto; anche qui, le eccezioni al buon senso si verificano solo in presenza di toponimi forti e distinti.
Tra i criteri di delimitazione non compare – con la sorpresa di alcuni – la geologia: da un lato questa è già implicita nel concetto di paesaggio, dall’altro suoli e geologia sono altamente variabili anche su brevissime distanze e dunque prendere questi fattori in considerazione per stabilire delle frontiere può essere proibitivo. Infatti, tutte le denominazioni del mondo, e spesso anche le zone specifiche presenti al loro interno, si basano primariamente su confini di natura storica, fisica e amministrativa, e non mancano esempi illustri di vigneti singoli caratterizzati da una scarsa omogeneità geologica.
La mappa costituisce quindi la rappresentazione coerente di un territorio, ma anche un canale semplificato che aiuta i produttori a raccontarsi in un contesto, sfruttando finalmente un linguaggio comune. Indipendentemente dall’iter formale del disciplinare che prossimamente condurrà all’utilizzo dei toponimi in etichetta, l’obiettivo è quello di suscitare una presa di coscienza da parte dei produttori, che nei toponimi devono riconoscersi e attraverso questa Carta devono voler affermare la propria identità. Perché «la valorizzazione di un vino può e deve passare anche attraverso la valorizzazione della terra, e la valorizzazione della terra non può prescindere dal riconoscimento di nomi e di luoghi».