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Potremmo definirlo il paradosso di Henry Kissinger. Poche persone, a occhio direi nessuna, hanno incarnato più intensamente e più a lungo di lui tutte le ragioni per cui a sinistra, ma anche in una larga parte del mondo cattolico e in larghissima parte di quello che oggi si usa chiamare il Sud del mondo, si è radicato nel tempo un profondo sentimento antiamericano. Curiosamente, nella fase finale della sua vita, il famigerato realismo del consigliere per la sicurezza (e poi segretario di Stato) di Richard Nixon è diventato popolarissimo proprio tra i suoi primi detrattori, in particolare per via delle sue posizioni sull’Ucraina, che lo hanno reso di colpo la personalità più citata quando a sinistra, e non solo, serviva un nome autorevole con cui legittimare le proprie intemerate contro l’accerchiamento della Russia da parte della Nato.
Destino davvero bizzarro, per l’uomo che porta la responsabilità del sostegno americano al golpe del generale Augusto Pinochet in Cile, quell’11 settembre del 1973 che all’indomani dell’attacco islamista alle Torri gemelle in tanti hanno tirato fuori dal cassetto dei ricordi scolastici, in una demenziale ripicca postdatata, a fare intendere che il terribile attentato dell’11 settembre 2001 gli americani un po’ se l’erano cercato. Ed ecco che negli ultimi anni proprio lui, dopo essere stato demonizzato per quasi mezzo secolo, e con molti buoni argomenti, diventava l’eroe del fronte antimperialista.
Studiare la strana, tardiva, quasi postuma fortuna di Kissinger a sinistra non ha un interesse semplicemente aneddotico. Prima di tutto, il suo caso dimostra come la scelta di campo prevalga sempre sul merito delle decisioni e delle responsabilità dei singoli. Cosicché, sebbene Kissinger possa essere considerato il responsabile di molte delle scelte che giustificherebbero un sentimento antiamericano, ecco che, non appena i suoi discorsi possano essere usati per attaccare le scelte degli Stati Uniti e dei loro alleati, scatta istantaneamente l’indulgenza plenaria, tutto è perdonato e l’ex reprobo diviene un imprescindibile punto di riferimento.
Nella repentina conversione alla scuola del più crudo realismo politico da parte del fronte che si era sempre raccontato (e in ogni altro contesto ancora si racconta) come idealista e intransigente, fino al fanatismo, c’è però qualcosa che va oltre queste ovvietà. Qualcosa che si muove a un livello più profondo, e che lì sotto, evidentemente, è marcito.
Se infatti il dibattito sull’Ucraina è stato per molti versi scioccante, quello che si è sviluppato dopo gli attentati di Hamas del 7 ottobre, prima ancora che Israele avesse reagito in alcun modo, ha segnato un ulteriore salto di qualità, spalancando dinanzi a noi l’abisso politico e morale in cui rischiamo di precipitare.
Si potrebbe quasi ricavarne una sorta di formula matematica dell’ipocrisia. Da un lato la retorica dell’eroica resistenza all’invasore rilanciata a sinistra in tutte le manifestazioni del 25 aprile, dall’altro le mille speciose obiezioni alle richieste di aiuto della resistenza ucraina, calunniata in ogni modo, come fossero loro, gli aggrediti, i responsabili della guerra.
Per non parlare dell’incredibile testacoda di tanti movimenti femministi e lgbtq, durissimi nel condannare ogni forma di prevaricazione patriarcale insita in un pronome o in una desinenza e pronti a giurare di credere a tutte le donne che denuncino violenza, a prescindere, salvo quando gli stupri di massa riguardano le donne israeliane, quando la violenza più ancestrale è scatenata da Hamas, organizzazione terroristica che la donna la vuole completamente sottomessa all’uomo, mentre omosessuali e transessuali possono dirsi fortunati se finiscono solo in galera (e infatti da dove comanda Hamas scappano in Israele, mentre non risultano molti casi di omosessuali o transessuali israeliani che abbiano mai cercato riparo nella Striscia di Gaza).
Quante assurde obiezioni, quante complicazioni inutili, quanti risibili appelli al contesto e ai rapporti di forza e alle condizioni di fatto abbiamo dovuto sentire negli ultimi tempi da questi nuovi realisti. Ma sempre a corrente alternata, s’intende. Dai tanti che invitano gli ucraini a trattare, cioè ad arrendersi, mai ho sentito indirizzare simili appelli anche ad Hamas o ai palestinesi in generale. In piazza non esitano a cantare che la Palestina dev’essere libera «dal fiume al mare», cioè cancellando completamente lo Stato di Israele, riconosciuto dall’Onu più di settant’anni fa, ma alla manifestazione per la pace del giorno dopo chiedono che l’Ucraina la smetta di pretendere la liberazione dei suoi territori occupati nel 2014 e nel 2022.
Il realismo politico tardivamente scoperto dai presunti idealisti è probabilmente la forma di fanatismo peggiore di tutte, perché riesce a sommare il massimo dell’intransigenza con il massimo del cinismo. Kissinger travestito da Che Guevara. Non ha molta importanza, da questo punto di vista, se e quanto effettivamente l’arruolamento di Kissinger nel fronte pseudopacifista, o paraputiniano, sia legittimo e fondato, sulla base delle sue affermazioni riguardo al conflitto in Ucraina, peraltro successivamente ricalibrate (e fermo restando che l’idealista Guevara il termine “pacifista” lo considerava un insulto). Tantomeno interessa qui sviscerare la più generale questione del peso effettivo di Kissinger nella storia, e della sua leggendaria, diabolica intelligenza, su cui gli storici hanno pareri discordi.
Non interessa perché né l’una né l’altra considerazione intaccano il paradosso dell’uomo simbolo dell’imperialismo americano assunto tardivamente come nume tutelare del fronte anti-Nato. Un paradosso che forse può spiegare anche la relativa fortuna, a sinistra, di un fascista, golpista, maschilista conclamato come Donald Trump, quanto meno se paragonata a feticci polemici dell’estrema sinistra (e dell’estrema destra) quali i democratici Hillary e Bill Clinton e negli ultimi anni (cioè, in larga misura, ex post) persino Barack Obama, il primo presidente nero degli Stati Uniti, e quindi, un po’ per funzione e un po’ per proprietà transitiva, lo stesso Joe Biden, probabilmente l’uomo che più di ogni altro, almeno negli ultimi decenni, ha lavorato per una svolta a sinistra della politica economica americana, oltre che per una moderazione della reazione israeliana agli attentati del 7 ottobre.
È un caso di dissonanza cognitiva di dimensioni veramente epocali quello che vede tanta parte della sinistra scagliarsi oggi contro la Nato, rimuovere completamente dal quadro gli orrori del 7 ottobre e il montare dell’antisemitismo in Occidente, giustificare i peggiori crimini di Vladimir Putin e persino la teocrazia medievale di Hamas, in nome di ideali che sono né più né meno tutto ciò contro cui si battono, dichiaratamente, Putin, Hamas, l’Iran degli ayatollah e tutti i peggiori regimi del mondo loro alleati.
E chissà che la possibile rielezione di Trump alla Casa Bianca, con la sua ben nota ostilità alla Nato, non faccia presto scoppiare anche questa bolla cognitiva, ponendo tutti noi europei, da soli, faccia a faccia con l’imperialismo russo, con le sue esplicite minacce ai Paesi confinanti, membri dell’Alleanza atlantica, dopo che avremo fatto del nostro meglio per contribuire a indebolirla. Quante sciocche banalità sulla necessità del disarmo e della pace universale rischieremo di doverci rimangiare in gran fretta, quando la minaccia sarà ai nostri confini, e non ci saranno più gli Stati Uniti a coprirci le spalle? Un capolavoro politico e strategico, senza dubbio. Chissà cosa ne direbbe Kissinger.
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