Il pacifismo negazionista che reclama prove più solide a documentazione della joint venture Onu-Hamas sta ricorrendo con pochissima convinzione e quasi di malavoglia a quel povero argomento di difesa. Perché in realtà dietro alle petizioni escusatorie che gridano allo scandalo per l’ultima trovata denigratoria di marca sionista spinge la genuinità di una pretesa diversa: e cioè poter dire senza tante storie che ben vengano quelle compromissioni, visto che dopotutto sostengono una militanza che non solo può vantare ottime ragioni ma inoltre, come si spiega da Pretoria ai college depending on the context, si limita a resistere a settantacinque anni di apartheid dell’entità genocidiaria.
C’è imbarazzo, per così dire. Confusione comunicazionale, diciamo così. Un po’ è l’atteggiamento del querulo avvocaticchio che difende il cliente perseguitato dalla malasorte e delle cospirazioni della schiatta usuraia («nnucenti l’arristaru!»); un po’ è la fregola che si imbavaglia per non dar fuori la roba vera, il proclama finalmente disinibito che rivendica non solo l’impunità ma la celebrazione democratico-umanitaria del circuito cablato dei terroristi sotto il culo dei dipendenti Unrwa (l’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi).
Hai un bel dire che quei server smistavano dati per la compilazione delle mappe adoperate il 7 ottobre per non sbagliare l’entrata nel kibbutz sionista: si trattava pur sempre, e anche in quel caso, della comprensibile tolleranza nei confronti di un’organizzazione che, come spiegano le avvocate farlocche e le usurpatrici di titoli diplomatici, rappresenta pur sempre una soda forza sociale, anche un pizzico progressista, che ha il diritto di opporsi alle prepotenze israeliane mentre l’Europa e gli Stati Uniti soggiogati dalla lobby giudaica guardano dall’altra parte.
Hai un bel dire che non fai di quel sottoterra un tale gruviera ben alimentato e ben rifornito senza che mai a nessuno degli otto milioni e mezzo di cooperanti embedded dal fiume al mare venga neppure il sospetto che non siano propriamente scavi archeologici: si tratta pur sempre, infatti, di rendere appena confortevole la prigione a cielo aperto più grande del mondo, dunque smettiamola con questa storia dei soldi internazionali che finiscono ad areare i tunnel anziché le camere degli ospedali.
Se poi qualche magagna effettiva fosse scoperta, d’accordo. E però diciamolo: le agenzie dell’Onu possono sbagliare, ma sono errori che non vengono dal nulla.