L’Ayatollah Ali Khamenei viene spesso visto come un’estensione di Khomeini: un successore che prosegue politiche avviate con la Rivoluzione islamica, ma non è così. Pensiamo a quanto Xi Jinping si sia distanziato da Deng Xiaoping. In entrambi i casi, i predecessori – pur nelle loro imponenti personalità – davano almeno l’impressione di non avere dimenticato il Paese per rincorrere il proprio ego. La Cina è un Paese economicamente esposto e tutti possono oggi assistere al risultato delle politiche di Xi Jinping: quando la borsa crolla e gli investitori fuggono c’è poco da fingersi inossidabili. L’Iran al contrario è avvolto nelle nebbie di un’economia poco visibile. Al di là delle armi (che esporta a prezzi da estorsione alla Russia) e risorse naturali come gas e petrolio (che non riesce a esportare come vorrebbe) gli resta poco. Così, dietro le quinte dell’economia globale, Khamenei sembra dirigere la scena di un Paese sottomesso e di un Medio Oriente dove è in grado di fare il buono e il cattivo tempo.
Tuttavia, questa messa in scena non è che un gioco pirotecnico per celare crepe che rischiano di far crollare l’edificio. In Occidente lo si intuisce ma si fa finta di non vederlo. La crisi della Repubblica islamica è l’elefante nella stanza. Delle trasformazioni radicali di Khamenei (che hanno portato a crescenti proteste popolari, crisi economica e dissenso all’interno della cerchia del potere) si sa poco.
Partiamo subito con il dire che di repubblica all’Iran è rimasto solo il nome. Si tratta oggi del feudo di un autarca, circondato da una corte di fedelissimi, dove il cittadino ha il rango di suddito. Per raggiungere questa transizione verso il califfato, Khamenei si è appellato alla Velayat-e Motlaghe faqih, una dottrina autoritaria islamica sciita che giustifica il dominio assoluto del clero (faqih) sullo Stato fino al ritorno del Mahdi, il messia sciita. Sebbene la dottrina fosse stata introdotta da Khomeini, Khamenei ha ampliato l’autorità del clero facendola derivare direttamente da Dio e sancendo così il suo diritto “divino” a controllare la vita, la ricchezza e l’onore delle persone. In sostanza, un controllo totale. Assoluto.
Nel saggio “Sapiens”, lo storico israeliano Yuval Noah Harari esplora l’importanza della fiaba nella storia dell’umanità. Infatti, la finzione sarebbe il collante tra gli esseri umani, quello che consente loro di collaborare in grandi numeri; il motore di civiltà quanto di assolutismo. Quella di ammantarsi di un diritto divino non è un’idea nuova: la ritroviamo dall’antica Mesopotamia alla Grecia, fino agli imperatori romani e ai Papi. Pareva la ricetta giusta per gettare le fondamenta di quel califfato sciita che (almeno nelle intenzioni) avrebbe un giorno dominato l’intero Medio Oriente, ma qualcosa è andato storto. L’Iran del XXI secolo non è l’antica Mesopotamia e neppure il Sacro Romano Impero. Gli iraniani alla fiaba non ci hanno creduto e a questa rappresentazione grottesca e anacronistica hanno risposto abbandonando l’Islam.
Alcuni mesi fa, il ministro della Cultura, Mohammad Mehdi Esmaili, ha confermato una diminuzione del trentatré per cento nel numero di moschee attive nel 2023. Un crollo che si aggiungeva al dato allarmante del 2022, quando il chierico Mohammad Abolghassem Doulabi aveva rivelato la chiusura di cinquantamila moschee su settantacinquemila. Allo stesso tempo, oltre alla laicizzazione, si è verificato un aumento delle conversioni al cristianesimo e alla fede zoroastriana.
Il collante creato da Khamenei è venuto a mancare. Gli iraniani non sono disposti ad accettare regole imposte da un’autorità che si definisce divina. Anzi, la trovano ridicola. Nel suo Olimpo, più che un Giove, Khamenei appare agli iraniani come un Bacco ubriaco di onnipotenza. All’autorità rinnegata non resta che affermarsi attraverso la più feroce e brutale delle repressioni.
Ma non è stato il solo effetto. Per contrappasso, l’allontanamento dall’Islam ha esaltato l’identità persiana, ribaltando il processo d’islamizzazione che Khomeini aveva opposto alla persianizzazione dell’era Pahlavi. La rivalutazione dell’identità nazionale, oltre che a far ripudiare agli iraniani la rivoluzione islamica, li ha avvicinati al figlio dello Shah, Reza Ciro Pahlavi, visto ora come garante dell’identità e forte figura di riferimento culturale prima ancora che politica.
In campo economico e politico, l’ossessione di Khamenei nel fare dell’Iran una fortezza lo ha portato a introdurre una serie di misure che alla lunga si sono rivelate autodistruttive. Innanzitutto ha isolato l’Iran attraverso l’economia della resistenza (che mira all’autosufficienza) frenando lo sviluppo del Paese. Ha poi tentato di bloccare l’accesso alle informazioni cooperando con la Cina per creare una rete Internet esclusiva per l’Iran – tentativi che si sono scontrati con la creatività informatica degli iraniani. Infine, con il progetto nucleare, ha cercato l’invulnerabilità solo per finire dilaniato dalle sanzioni.
I suoi alleati poi non sono tra i più affidabili. Oggi l’Iran può fornire armi alla Russia traendo beneficio dal conflitto in Ucraina ma in tempo di pace non avrebbe nulla da offrire. Iran e Russia, entrambe ricche di risorse naturali, sono rivali piuttosto che partner. Anche i rapporti con la Cina sono aleatori. Nonostante Pechino finga di essere un partner strategico, considera l’Iran solo un partner commerciale da isolare dai mercati a cui ambisce. Le promesse di investimenti non sono mai state seguite dai fatti.
Se le milizie per procura, in particolare Hezbollah, Hamas e Houthi, sono parte di un disegno per deviare le minacce esterne e proteggere i propri interessi (una specie di confine esteso) e allontanare l’attenzione dall’Iran, ci sono segnali che Teheran abbia almeno parzialmente perso il controllo delle proprie proxy che ora agiscono talvolta di propria iniziativa e non necessariamente nell’interesse dell’Iran, ottenendo per regime effetti non desiderati, come l’attenzione internazionale e l’irritazione dell’alleata Cina per il blocco del commercio nel Mar Rosso.
A questo quadro va ad aggiungersi infine la crisi all’interno della cerchia di potere. Malgrado anni di purghe, Khamenei non è riuscito a sbarazzarsi del tutto dei khomeinisti che sono fortemente contrari alla deriva autarchica, e opposti alla decisione corrotta dell’Ayatollah di designare il proprio figlio Mojtaba a successore. Un contenzioso che alla morte di Khamenei potrebbe rivelarsi esplosivo.