La narrazione sull’italianità delle aziende, sui presunti danni della globalizzazione, sullo shopping delle multinazionali straniere ai danni delle nostre o sulle delocalizzazioni dei grandi gruppi è stata piuttosto pervasiva nel dibattito politico degli ultimi decenni. Quasi impossibile contrastarla a livello mediatico, si incrocia con il consolante spirito sovranista e nostalgico in cui si crogiola con sempre più piacere quell’anziana signora in lento declino che è l’Italia. L’importanza delle imprese a controllo estero è cresciuta nel nostro Paese. Ed è una buona notizia. Nel 2021 la percentuale di dipendenti privati occupati presso un’azienda straniera è aumentata al 9,44 per cento, era del 6,8 per cento venti anni fa, e un’accelerazione c’è stata proprio in occasione della pandemia: tra il 2019 e il 2021 i lavoratori presso queste imprese sono saliti di più di centocinquantamila unità, ovvero del 10,1 per cento, a un ritmo quindi superiore di quello dell’occupazione nel suo complesso.
Il dato più importante, però, è che la quota di valore aggiunto delle aziende a controllo estero sul totale è cresciuta ancora di più, dall’undici al 17,07 per cento tra 2004 e 2021. Significa che i singoli dipendenti di queste realtà sono stati più produttivi della media. E una conferma arriva dal fatto che la porzione di ricerca e sviluppo prodotta dalle imprese straniere in Italia è ancora più alta, del 32,68 per cento, oltre che in rapido aumento. Allo stesso modo è salita molto, fino al 34,19 per cento, la quota di export che viene generato da esse, Una percentuale altissima considerando che occupano meno del dieci per cento dei lavoratori italiani. Significa che le aziende a controllo estero sono sempre più indispensabili per il Made in Italy. A qualcuno può sembrare paradossale, ma non lo è affatto. Anzi, le buone performance che le nostre esportazioni hanno visto negli ultimi venti anni sono dovute anche e soprattutto alla presenza di queste imprese.
Naturalmente la quasi totalità di tali aziende è controllata da una multinazionale che le gestisce da un headquarter collocato in Germania, negli Stati Uniti, in Francia, nel Regno Unito, per elencare i quattro Paesi da cui provengono gran parte dei gruppi controllanti. Sono presenti soprattutto nel settore farmaceutico, che ha vissuto una grande crescita negli ultimi dieci anni, nell’automotive, nella chimica e nella raffinazione del petrolio. In questi comparti a lavorare per un’azienda straniera è tra il trenta e il cinquanta per cento degli addetti. Non è un caso che a livello geografico siano più diffuse soprattutto nelle regioni in cui si concentrano le imprese di questi comparti, la Lombardia, in primis, e poi Piemonte, Liguria, Lazio.
Sono invece scarse, per esempio, nel settore alloggio e ristorazione, che risulta essere tra quelli con la maggiore polverizzazione e il minor margine, nonché nel Mezzogiorno. Dato rilevante, laddove vi sono più addetti di multinazionali straniere ve ne sono di più anche di multinazionali italiane, che nel complesso occupano il 10,7 per cento dei lavoratori e sono particolarmente presenti nel Nord Est. Nel Sud e nelle Isole è invece massima la percentuale di imprese che non appartengono a nessun gruppo, né multinazionale né italiano
È questa una delle principali cause del fatto che i salari nel Mezzogiorno sono più bassi, la scarsa diffusione delle multinazionali, che danno gli stipendi migliori. Quelle estere pagano 40,04 euro ad addetto, quelle italiane 36,49, mentre i gruppi domestici 27,76 e le aziende non appartenenti a gruppi, che occupano la maggioranza dei lavoratori, solo 20,05. La differenza è enorme ed è dovuta al fatto che il valore aggiunto per addetto che le multinazionali riescono a raggiungere, di quasi cento euro per lavoratore, è molto superiore a quello delle altre realtà.
È vero, c’è una relazione tra quanto pagano le singole piccole e medie aziende non controllate da alcun gruppo e quelle multinazionali estere. Dove i salari delle une sono più basse lo sono anche quelli delle altre. Fa parzialmente eccezione solo il Lazio. Tuttavia il divario tra le diverse tipologie di società è tale che nel Mezzogiorno le poche aziende multinazionali, sia italiane che straniere, pagano molto meglio persino di quelle settentrionali se queste ultime non fanno parte di alcun gruppo, 29,7 e 32,15 euro contro poco più di ventidue. Questo significa che il mero aumento delle imprese controllate da qualche multinazionale estera o domestica produrrebbe una crescita generale dei salari.
Che poi è quello che per fortuna è accaduto nel corso dell’emergenza pandemica, in cui i gruppi a controllo straniero hanno contribuito in modo determinante alla resistenza del settore produttivo italiano. Non solo gli addetti di queste società, come si è visto, tra il 2019 e il 2021 sono cresciuti del 10,3 per cento, più di quanto siano aumentati quelli delle multinazionali italiane, mentre gli altri lavoratori sono invece diminuiti, ma soprattutto l’incremento maggiore, del 23,1 per cento, è stato proprio nel Mezzogiorno, con una crescita di trentaseimila unità in due anni.
Davanti a questi numeri poco importa che la retribuzione media dei lavoratori meridionali delle multinazionali estere sia scesa nello stesso periodo da trentatremila e quattrocento a ventinovemila e settecento euro, perché si tratta comunque di tredicimila euro in più di quanto avrebbero guadagnato in una piccola o media azienda locale. A livello nazionale, invece, tra il 2019 e il 2021 i salari degli addetti delle aziende controllate da gruppi esteri sono aumentati più degli altri, del 2,4 per cento, un altro elemento che non può passare inosservato.
Il dato fondamentale di questi numeri è che non dobbiamo temere, ma abbiamo bisogno di multinazionali, soprattutto laddove ce ne sono di meno, e abbiamo bisogno anche che imprese italiane diventino multinazionali. Perché riescono a fare più ricerca, a essere più produttive, e quindi a pagare meglio i propri dipendenti, a stimolare le esportazioni più delle altre, insomma a fare il proprio mestiere, fare crescere un Paese in declino. Con il Covid abbiamo avuto la conferma che sono determinanti nei momenti di crisi perché forniscono quella solidità necessaria che altre imprese non riescono ad avere davanti ai cosiddetti cigni neri, che negli ultimi decenni sono diventati così frequenti. E Dio solo sa quanto potranno esserlo in futuro.