Gli Stati Uniti hanno selezionato il successore di John Kerry alla posizione di inviato speciale per il Clima: si tratta di John Podesta, attualmente consigliere del presidente Joe Biden e responsabile dell’implementazione dell’Inflation reduction act, la grande legge (vale trecentosessantanove miliardi di dollari) di stimolo pubblico alla produzione di tecnologie per l’energia pulita, come le batterie e i pannelli solari.
Al di là dei dettagli (il titolo ufficiale di Podesta sarà diverso da quello di Kerry, e il suo ufficio sarà alla Casa Bianca anziché al dipartimento di Stato) e al di là delle tempistiche (non è chiaro quando avverrà la successione, probabilmente in primavera), la scelta di Podesta è importante anzitutto per quello che vuole comunicare, sia ai cittadini americani che al resto del mondo: continuità.
Kerry e Podesta sono simili non solo sotto il profilo anagrafico, avendo rispettivamente ottanta e settantacinque anni, ma anche per le esperienze fatte. I due hanno lavorato insieme alle negoziazioni che condussero al fondamentale patto sul clima tra Stati Uniti e Cina del 2014, ad esempio, e hanno contribuito alla stesura dell’accordo di Parigi del 2015; entrambi, inoltre, hanno stretti contatti con molti diplomatici stranieri, inclusi quelli cinesi. Questa continuità è stata sottolineata dallo stesso Podesta, che in una conversazione con il Washington Post ha dichiarato che «Kerry ha ridato agli Stati Uniti la leadership sul clima in tutto il mondo. Faremo in modo di mantenere lo slancio che è stato costruito grazie ai suoi sforzi».
Sotto Podesta, dunque, ci si aspetta che l’America prosegua nell’opera di incoraggiamento alla transizione energetica e al taglio delle emissioni di gas serra nel mondo. Il nuovo inviato per il Clima possiede la credibilità necessaria per svolgere l’incarico, avendo plasmato le politiche ambientali di Bill Clinton quando ne fu capo dello staff e avendo supportato l’ex-inviato Todd Stern in qualità di consigliere di Barack Obama.
Podesta è insomma un funzionario rispettato tanto a Washington quanto all’estero e dentro il movimento ambientalista; è anche ben noto agli elettori del Partito democratico, che Biden vuole compattare – e magari allargare, coinvolgendo i cittadini più giovani – sulla questione climatica in vista della probabile sfida con Donald Trump alle presidenziali di novembre. Sempre a novembre, peraltro, si svolgerà la Cop29 di Baku, in Azerbaigian.
Nonostante l’insistenza dell’amministrazione Biden sulla continuità, esistono delle differenze significative tra John Kerry e John Podesta. Innanzitutto, pur avendo un profilo internazionale, Podesta non ha la stessa statura del predecessore e non gode della sua stessa notorietà, che gli ha permesso di impostare una diplomazia non solo contenutistica ma anche “personale”. Rispetto a Kerry, poi, probabilmente viaggerà di meno all’estero perché i suoi impegni domestici lo trattengono alla Casa Bianca.
Podesta, come detto, ha il compito di supervisionare l’attuazione dell’Inflation reduction act e assicurarsi che raggiunga l’obiettivo di trasformare l’America in una superpotenza industriale green. Un lavoro impegnativo, che il neo-senior adviser per il clima – e non ufficialmente envoy, inviato, come Kerry: una differenza lessicale forse cruciale – assicura di voler portare avanti «al cento per cento».
L’Inflation reduction act, che Podesta ha promosso e che è il cuore dell’agenda politico-economica di Biden, è stato però finora fonte di frizioni tanto con i rivali degli Stati Uniti, come la Cina, quanto con gli alleati, come il Canada, il Giappone e l’Unione europea. Nel suo nuovo ruolo, Podesta sarà quindi chiamato a smussare le tensioni internazionali di carattere industriale – la transizione energetica è una grande rivoluzione tecnologica – e nel contempo a garantire spazi aperti per la cooperazione climatica: un equilibrio difficile da mantenere, come Kerry ha potuto sperimentare in prima persona nei colloqui con Pechino.
L’anno scorso Podesta ha rilasciato a questo proposito una dichiarazione forte al Financial Times: che gli Stati Uniti, accusati di protezionismo, non si scuseranno con nessuno per aver dato priorità ai posti di lavoro nazionali con l’Inflation reduction act, all’interno di quella che è a tutti gli effetti una competizione mondiale sull’energia pulita. Conciliare i due lavori, insomma, si prospetta tutt’altro che facile pure per uno stratega veterano come lui.
Le sfide, peraltro, non sono solo all’estero ma anche in patria. L’energia è un tema di campagna elettorale e le distanze tra democratici e repubblicani si sono allargate con la recente decisione di Biden di sospendere i nuovi permessi di esportazione di gas liquefatto fino a che non sarà valutato il loro impatto sul clima, sull’economia e sulla sicurezza nazionale. Gli ambienti progressisti la considerano una vittoria per il phase-out dei combustibili fossili; per gli ambienti conservatori è un attacco al settore oil & gas che avvantaggerà i paesi esportatori meno scrupolosi sulle emissioni (in primis il Qatar). Entrambe le parti hanno le loro ragioni. Donald Trump, comunque, ha promesso che se verrà rieletto approverà i nuovi progetti di Gnl nel primo giorno di secondo mandato.