Ci sono molte ragioni che mi spingerebbero a non parlare di Julian Assange. La prima è che, per quanto non mi piaccia né lui né quel che fa, si tratta di un uomo che per quel che fa vive braccato da più di dieci anni, e da cinque è detenuto in Inghilterra, dove ieri è cominciata l’udienza che dovrà decidere sulla sua estradizione negli Stati Uniti (con il rischio di condanne pesantissime).
La seconda ragione per cui non ne parlo volentieri è che, per quanto io possa trovare discutibili i suoi metodi e la filosofia stessa di Wikileaks, tra le centinaia di migliaia di documenti segreti che ha pubblicato ce ne sono alcuni che hanno rivelato crimini compiuti dall’esercito americano in Afghanistan e in Iraq rimasti fino a quel momento sconosciuti, circostanza che dovrebbe giustificare quasi qualsiasi cosa si facesse per ottenerli e diffonderli.
C’è o dovrebbe esserci però una bella differenza tra il ricercare e pubblicare, assumendosene la responsabilità, notizie di evidente interesse pubblico, e il raccogliere, trafugare o far trafugare tonnellate di documenti riservati per rovesciarli direttamente su internet; tra condurre un’inchiesta giornalistica e mettersi a disposizione di chiunque ottenga documenti riservati, con qualunque mezzo, come nel caso clamoroso delle e-mail del partito democratico americano, violate da hacker russi e prontamente diffuse da Wikileaks negli ultimi, decisivi giorni del duello elettorale tra Donald Trump e Hillary Clinton.
La vicenda di Assange è piena di lati oscuri, comprese le accuse di stupro e molestie sollevate con dubbio tempismo da un tribunale svedese, poi cadute in prescrizione, e se ne potrebbe discutere all’infinito. Ancora più controversa è la questione dei limiti della libertà di espressione e dei rischi relativi alla sua compressione in nome della ragion di stato (motivo per cui Chelsea Manning, condannata a trentacinque anni per aver consegnato documenti classificati ad Assange, è stata graziata da Barack Obama dopo avere scontato appena un quinto della pena).
Ma non si può sostenere che quei limiti non esistano, che uno stato democratico non abbia diritto di far rispettare alcuna forma di riservatezza, per nessun motivo. Perché equivarrebbe a negare non solo la possibilità di tenere in piedi qualunque genere di servizio segreto, ma persino di esercito, polizia, magistratura (chi vorrebbe fare il magistrato antimafia, sapendo che chiunque potrebbe lecitamente pubblicare ogni genere di informazione sulle sue indagini, i suoi spostamenti e la sua stessa sicurezza?). Non resterebbe altra possibilità che trasformare l’intero paese in una sorta di grande comunità amish, confidando nella bontà del prossimo.
Per questo, al netto del giudizio su Assange, che nel 2012 ha persino condotto un talk show sulla tv del regime putiniano Russia today, mi colpisce sempre la forza e la diffusione dell’assangismo, e in particolare dell’assangismo italiano. Cioè il culto dell’uomo al quale il 5 settembre 2022 l’Ordine dei giornalisti del nostro paese ha consegnato la tessera onoraria, mentre da Roma a Bologna, da Bari a Ivrea, si moltiplicavano i comuni decisi a conferirgli la cittadinanza onoraria.
La popolarità di Assange e la sua trasversalità (diciamo da destra a sinistra, per non dire rossobruna) sono un fenomeno mondiale, anche al netto dell’evidente campagna orchestrata da sgherri, seguaci e sostenitori di Vladimir Putin allo scopo di creare l’ennesima falsa equivalenza tra democrazia e autocrazia, in particolare in questi giorni, per coprire la vergogna della reclusione e dell’assassinio di Alexei Navalny.
La popolarità di Assange è un fenomeno mondiale, ma un fenomeno di cui l’Italia, a mio parere, è un laboratorio di avanguardia. Da anni assistiamo infatti a una fusione politico-culturale paradossale eppure decisiva, all’abbraccio tra hippy e questurini, anarco-nichilismo e autoritarismo, capace di generare un ibrido mai conosciuto prima: il celerino grunge.
Potremmo definirlo sovversivismo legalitario – o se preferite giustizialismo fricchettone – cioè esattamente quella visione del mondo in base alla quale un politico dev’essere sbattuto in galera senza processo anche solo per il sospetto che abbia usato l’auto blu per andare a comprare il latte, mentre chi abbia trafugato e diffuso segreti militari merita un pubblico encomio.
Ciascuno di noi è figlio delle proprie fissazioni e delle proprie idiosincrasie, dunque non posso escludere che nella mia lettura prevalga un riflesso d’ordine rivelatore della mia indole conformista, o della mia educazione tradizionalista, o della mia cultura stalinista, o magari tutte e tre le cose insieme. O semplicemente l’allergia a ogni forma di grillismo, populismo e antipolitica.
In altre parole, so di non possedere tutte le risposte su una vicenda tanto intricata e per molti dolorosa, che investe così pesantemente la vita di un uomo, dei suoi cari e dei suoi numerosi collaboratori e ammiratori. Mi chiedo però come sia possibile che tanta parte del giornalismo italiano (e degli intellettuali, e dell’opinione pubblica in generale) non si ponga nemmeno le domande.
Stavo per aggiungere, come estremo, banalissimo esempio di scuola: è ovvio che la giusta battaglia in favore della libertà di espressione non può diventare, per dirne una, il diritto di captare e pubblicare le mie private telefonate, esponendomi a qualunque genere di ricatto o anche semplicemente al pubblico ludibrio. Poi mi sono fermato, sono tornato a leggere le domande di cui sopra, e mi sono risposto da solo.