Quot capita, tot sententiae. Ossia: quante teste, tante opinioni. Ma anche, malauguratamente, tanti significati attribuiti alle parole. Magari strampalati, magari ambigui, magari alimentando la babele comunicativa.L’antico motto ispira to a Terenzio (che al posto di capita aveva homines) mi risuona nella mente ogni volta che intorno a me qualcuno pronuncia con una certa intenzione il verbo quotare. Il che avviene soprattutto nelle discussioni informali in chat, ma ormai anche in quelle orali – persona A: «Io dico che…»; persona B: «Io invece credo che…»; persona C: «Ma quando mai! Quoto A». Non solo: se ne trova traccia anche nei più sussiegosi testi tecnici e critici – «L’autore Tal dei tali quota un passo di…». Tutti a quotare, ma cosa avranno da quotare…
Quotare deriva da quot, un aggettivo plurale indeclinabile (di origine indoeuropea) che in latino vuol dire “quanti/e” (e secondariamente “ogni”) e rimanda a un’idea di numerabilità. Questa idea di quot è conservata nella lingua italiana dalla sua numerosa progenie: dal sostantivo “quota” (ossia «ciascuna delle parti o porzioni ideali in cui si suddivide un bene o un’altra entità con cui una pluralità di soggetti ha in comune un determinato rapporto giuridico-economico», Grande dizionario della lingua italiana di Salvatore Battaglia) a “quoziente” (il risultato della divisione, che indica quante volte il divisore sta nel dividendo) e “quoto” (il quoziente senza resto), fino a “quotatura”, “quotazione”, “quotista”, “aliquota” e al meno scontato “quotidiano” con i suoi derivati (da quotidie, “ogni giorno”, composto da quot e dies).
È in coerenza con l’idea di numerabilità, e quindi di ordine numerabile o numerabilità ordinata, che il verbo di cui stiamo parlando ha fatto la sua comparsa fin dai primordi della nostra lingua: «Quotare è iudicare in quale ordine ogni cosa sia, e però quoto si può pilliare per lo iudicio», annotava Francesco di Bartolo da Buti nel suo Commento sopra la Divina Commedia steso negli ultimi anni del XIV secolo. Sulla medesima linea si collocano le accezioni sviluppate nell’italiano corrente, che il vocabolario Zingarelli espone così: «1 obbligare per una quota. 2 assegnare un prezzo a un titolo in un listino di borsa. 3 (figurato) valutare, stimare», a cui si aggiunge «4 nei disegni tecnici, rilievi topografici e simili, attribuire una quota», ossia la distanza di un punto da un piano orizzontare di riferimento. Fin qui, nulla a che vedere con le “quotazioni” circolanti nelle chat.
A queste accezioni – a partire dagli anni Novanta del secolo scorso, e con crescente, inarrestabile intensificazione – se ne è però aggiunta una del tutto diversa, così diversa da dare luogo a un verbo che si scrive e si pronuncia allo stesso modo ma è di fatto un altro verbo: e infatti nel vocabolario Treccani compare per la prima volta nel 2008 come neologismo, mentre il già menzionato Zingarelli ne fa una voce a sé, qualificandolo come di uso gergale: «negli scambi fra utenti di Internet (forum, newsgroup, e-mail ecc.) citare una parte del messaggio a cui si risponde» e, in senso esteso, «approvare, condividere quanto scritto da altri in queste discussioni».
Come si è arrivati ad appiccicare questi significati in apparenza privi di fondamento etimologico a un verbo identico a un altro che ha sempre avuto un senso totalmente differente? Non è un mistero, per chi conosce l’inglese e la sua pervasività. In inglese to quote ha pressappoco gli stessi significati del nostro originario “quotare”, ma l’accezione registrata al primo posto nei dizionari d’Oltremanica è un’altra: to quote vuol dire principalmente citare, quote o quotation è la citazione, e quotation marks o semplicemente quotes le virgolette che si aprono e si chiudono a delimitare una citazione. È dalla forza suggestiva dell’inglese, a cui non è estranea una certa ostentazione di familiarità anglofona, che nasce l’uso neologistico di “quotare”.
E tuttavia, con un po’ di buona volontà, e attraverso una serie di passaggi semantici, un fondamento etimologico si può ritrovare. Bisogna prendere in considerazione il latino medievale, dove questo verbo (inesistente nel latino classico), sempre in coerenza con il valore intrinseco di quot, indicava l’operazione di numerare le pagine di un codice («in capita et versiculos distinguere», come spiegava Charles du Fresne du Cange nel secentesco Glossarium mediae et infimae latinitatis). Di qui a inserire qualche appunto in margine – note, luoghi di altri autori o dello stesso autore – il passo è breve: ed è così che si sviluppò il senso di “riferimento”, “citazione” e (poiché in genere si trattava di riferimenti a una auctoritas d’appoggio) “condivisione” travasato nel XV secolo nell’inglese medio quoten o coten, per il tramite del coevo francese coter.
Tutto ciò accadeva Oltralpe e Oltremanica seicento anni fa. Bisognava aspettare l’era digitale, internet, i social, perché questo uso particolare, migrato verso altri lidi dal latino degli scriptoria, ci ritornasse indietro nelle conversazioni online e di qui tracimasse nel parlato. Sovrapponendosi a una terminologia ampiamente consolidata e definita, senza nulla aggiungere se non un di più di confusione e un po’ di ridicolo. Era proprio il caso?