«La casoeûla l’ha d a vess ben tacchenta e minga sbrodolada e sbrodolenta»: la cazzuola deve essere bella densa e non brodosa. La saggezza popolare riassume in una battuta quale deve essere il risultato finale di una lunghissima preparazione. In realtà non tutti sono d’accordo con questa prescrizione: c’è chi vuole la cassoeula più umida e chi la preferisce asciutta.
Fondamentale per ottenere uno o l’altro risultato è la scelta delle verze, gelate oppure no. Chi vuole un piatto brodoso dovrà procurarsi le verze che hanno “preso la gelata” nel campo, e aspettare quindi che vengano raccolte nei mesi più freddi: in cottura si spappoleranno. Chi vuole una foglia più consistente e un risultato più asciutto prenderà verze non gelate.
Inutile dire che le verze sono l’ingrediente protagonista di questo piatto, accanto alla carne di maiale. Sì. Ma quale? Puntine, ovviamente, come in Lombardia si chiamano le costine. E poi cotenne e, in alcuni casi, testina e piedini: nemmeno sulla scelta delle carni infatti le opinioni sono concordi. Alcuni ritengono che queste ultime aggiunte rendano la cassoeula troppo unta, ma altri ricordano che il piatto nasce per sfruttare gli scarti della macellazione del maiale.
E poi ci sono i verzini, i salamini da pentola che prendono il loro nome proprio dal matrimonio con le verze: sono piccoli, freschi, insaccati in budello naturale e legati come salsicciotti.
Sfojaa i verz: la preparazione
Una volta selezionati gli ingredienti non resta che munirsi di un grande pentolone e di tanta pazienza: la cassoeula non è un piatto veloce, ci vuole tempo per ottenere un risultato perfetto, con la carne che si stacca dall’osso della costina e la verza che si scioglie in bocca; e non è nemmeno un piatto che si può preparare per quattro persone, ma va fatto per tanti commensali, almeno per otto.
Le quantità minime per una cassoeula che si rispetti sono due verze per un totale di circa due chili e mezzo, un chilo e mezzo di costine di maiale, trecento grammi di cotenne, otto verzini.
Per iniziare pulite, mondate, sfogliate e lavate accuratamente le verze, quindi rompete le foglie in grossi pezzi: è un’operazione lunga e noiosa, tanto che a Milano si dice “sfojaa i verz” per intendere un lavoro ripetitivo e senza soddisfazione.
Mondate e lavate due gambi di sedano, due carote e una cipolla bionda, quindi tritate il tutto grossolanamente.
In una grande pentola ponete a rosolare su fuoco dolcissimo il sedano, la carota e la cipolla con una noce di burro e le cotenne; quando il soffritto sarà appassito, aggiungete le puntine e lasciatele cuocere lentamente una mezzora, mescolando di tanto in tanto perché prendano uniformemente colore.
Salate, unite le verze, poche per volta (bisogna aspettare che una parte si sia ammosciata prima di unire la seguente, altrimenti non ci stanno nella pentola), quindi coprite con il coperchio e lasciate cuocere molto lentamente per almeno due ore, mescolando e smuovendo le verze di tanto in tanto e bagnando con poco brodo se necessario. A fine cottura regolate di sale.
A parte, lessate i verzini in una pentola con acqua non salata e inizialmente fredda: lasciateli cuocere coperti per circa quindici minuti a partire dal momento del bollore. Una volta cotti, sgocciolateli e trasferiteli nella pentola della cassoeula.
Fin qui, la base, a cui potete aggiungere i piedini (un paio) e il musetto, talvolta anche l’orecchio, che vanno in genere prima sbollentati a parte e poi aggiunti al pentolone.
Molti uniscono anche una punta di concentrato di pomodoro, non previsto nella ricetta originale, ma capace di dare un tocco di colore a cui ormai siamo abituati: c’è però chi considera il pomodoro semplicemente eretico.
Ricordiamo anche che c’è chi fa sgrassare le cotenne in un tegame a parte e chi, per accelerare la preparazione, fa scottare le verze in acqua salata prima di unirle alle carni.
Il dibattito continua al momento di servire: la cassoeula va gustata da sola o con un contorno di polenta? Anche qui i pareri divergono.
Un piatto divisivo
Insomma, come tutti i grandi piatti che uniscono e definiscono un territorio, la cassoeula è in realtà divisiva. A partire dal nome, che alcuni mantengono rigorosamente in dialetto (da pronunciare con la œ alla francese e con una sola esse aspra) e che altri italianizzano in cazzuola. Il nome lombardo deriva da “cassu”, mestolo, quello usato per servire la minestra, ma anche chi tira in ballo la cazzuola dei muratori non sbaglia: radice comune in entrambi i casi è “cazza”, recipiente di ferro.
Le origini del piatto, poi sono a loro volta oggetto di dibattito: alcuni vedono nella cassoeula una matrice celtica, che la lega a grandi piatti francesi come il cassoulet (simile anche nel nome) di Carcassonne e la choucroute alsaziana, oltre che ai cocidos spagnoli e galiziani in particolare. Altri vedono la cassoeula come figlia diretta della dominazione spagnola del Seicento in Lombardia, erede della olla podrida castigliana, grande pentolone di carni di maiale e legumi: una versione che si merita anche una leggenda, secondo la quale sarebbe stato un soldato spagnolo a insegnare a cucinare il piatto a una cuoca milanese, sostituendo ceci e fagioli con quello che trovò nell’orto, le verze appunto.
Di certo la preparazione della cassoeula è legata alla macellazione del maiale, di cui i contadini potevano tenere e sfruttare tutte quelle parti che non erano destinate alla preparazione dei salumi. Tagli meno nobili, che oggi talvolta si fatica addirittura a trovare. Anche a questo riguardo alcuni legano la cassoeula all’inizio della stagione, a San Martino, l’11 novembre, altri spostano tutto alla fine dell’inverno, a Sant’Antonio, il 17 gennaio. Entrambe le date sono legate alla macellazione del maiale, e di sicuro la cassoeula si propone durante tutto l’inverno.
Ricordiamo che, proprio se si sceglie di usare parti di scarto come piedini e musetto, è importante avere un buon macellaio di riferimento, che li procuri assicurando la qualità. Chi vuole preparare il piatto simbolo della cucina lombarda deve dunque armarsi di pazienza, non solo per rispettare i lunghissimi tempi di preparazione, ma anche perché deve conoscere un po’ di storia, almeno se non ha già una tradizione familiare radicata sul territorio.
In tavola
Abbiamo visto come preparare la cassoeula, le abbiamo lasciato almeno tre ore di cottura, abbiamo valutato tutte le varianti possibili. È arrivato il momento di portarla in tavola, con o senza polenta. E siccome non manca chi assicura che riscaldata è ancora più buona, c’è anche chi la prepara il giorno prima.
Tutti (o quasi) la servono in fondine o ciotole. In tavola non deve mancare il pane buono, possibilmente le michette. Altro must have della tavola è un contenitore per gli ossi: non sarà particolarmente elegante, ma non è nemmeno piacevole ammonticchiare i resti delle puntine nel proprio piatto.
Infine il vino: la tradizione lo vuole rosso, magari una Barbera (perfetta questa di Pasquale Pellissero con la sua acidità e la nota speziata finale), oppure si può fare una scelta in pura chiave territoriale con un rosso “milanese” come questo di Montevecchia. Amatissimo anche l’accostamento con la Bonarda o con un classico Chianti. Ma negli ultimi tempi ha preso piede l’abbinamento tra cassoeula e champagne, visto che sono sempre più numerosi i ristoranti che lo propongono, ma anche i golosi che lo apprezzano: perfetto Brut Souverain di Maison Henriot. Non sarà quello che bevevano le nonne milanesi, ma il successo è assicurato.