Negli ultimi mesi è capitato spesso di parlare su queste pagine della situazione della cucina italiana all’estero. In particolare, abbiamo raccontato di come nel mondo la nostra tradizione culinaria sia apprezzata quasi incondizionatamente ma stenti ancora ad affermarsi come proposta di fine dining. Pensiamo alla dicotomia tra il ristorante francese, che in genere offre il non plus ultra della ristorazione d’oltralpe scegliendo ingredienti preziosi e ricette classiche, e il modello pizzeria e trattoria da Bel Paese che è quanto di più rappresentativo gli stranieri associno al nostro territorio.
Dove sono quindi tutte le nostre stelle, gli chef italiani che da nord a sud stanno progressivamente innovando la tradizione, la cultura e la conoscenza intorno al cibo? Che tipo di impatto hanno queste realtà trasportate in terra straniera? A seconda dei contesti nelle quali vengono inseriti – perlopiù hotel di lusso o di catena che cercano le grandi firme della ristorazione mondiale per creare “tavole destinazione” per i propri ospiti – i fine dining italiani hanno iniziato a emergere e farsi spazio solo di recente. Il tentativo di crearsi un’identità o di perpetuarne una già forte in patria non è un risultato che raggiungibile nel breve periodo e anzi, vincere gli schemi riuscendo a conquistarsi un bacino di utenza oltre la clientela dell’hotel è una sfida.
Una scommessa che ogni chef chiamato in destinazioni più o meno esotiche si trova a fronteggiare e che sceglie di affrontare in modi diversi, anche a seconda del proprio alfabeto gastronomico. Una delle situazioni italiane d’esportazione più felici che ci è capitato di provare negli ultimi mesi riguarda una grande famiglia italiana. L’inamovibile duo dei fratelli Massimiliano e Raffaele Alajmo ha deciso di puntare sui giovani e sui pilastri della cucina di famiglia per raccontare la propria identità all’estero. Sesamo è il primo progetto degli Alajmo in Marocco, inaugurato nel 2019 e collocato all’interno di un gioiello architettonico assoluto quale il Royal Mansour di Marrakech – l’hotel a sette stelle di proprietà della famiglia reale marocchina.
Con grande piacere si viene accolti da una buona percentuale di personale italiano (e parte di quello locale che parla la nostra lingua) e una mise en place che celebra la ristorazione italiana nella sua forma più pura e classica. Dal primo colpo d’occhio è facile rintracciare lo stile, il gusto e il lusso sobrio dei complementi d’arredo, della tavola in vetro di Murano, dai colori ai segni di pittura e ai disegni di Massimiliano, alla matericità della carta del menu così come al tessuto immacolato che ricopre la tavola.
L’uso della tovaglia fuori dall’Italia (e spesso dall’Europa) non è così d’abitudine e in certi casi può essere quasi una controtendenza alle moderne derive del fine dining contemporaneo che tendono a privilegiare le superfici nude e una mise en place sempre più agile. Tuttavia, un contesto come quello di Sesamo – tenendo anche presente gli altri outlet di ristorazione presenti nella stessa struttura – sembra ancora vivere di quel linguaggio muto (ma potente) fatto solo della sua estetica.
A tenere le redini della cucina troviamo Riccardo Barni, 25 anni anagrafici, di cui due passati a Marrakech e i precedenti a farsi le ossa nelle varie realtà firmate Alajmo. Grandissima umiltà, i piedi ben piantati per terra, una decisa determinazione nel voler lasciare un segno con il proprio operato ma allo stesso tempo la concretezza di una visione consapevole del contesto in cui si lavora e non distratta in inutili virtuosismi. «La sfida che ci troviamo a fronteggiare ogni giorno parte dal lavoro in cucina e dalla difficoltà di riuscire a collaborare con i fornitori locali che non sono abituati ad una regolarità, alla garanzia di una qualità e al rigore.
Non c’è ragione, secondo il loro punto di vista, di dover necessariamente seguire una stagionalità piuttosto che delle richieste di un cliente importante e significativo come Royal Mansour. Qui l’attitudine è Inshallah e bisogna prenderne atto per agire di conseguenza» ci raccontano.
Il menu offre un’ampia panoramica sulla cucina del tristellato, con alcuni affacci diretti sulla storia del brand come il cappuccino di seppia, il riso zafferano e liquirizia (qui felicemente riproposto con carciofi saltati al prezzemolo e incenso e un gelato al carciofo e liquirizia), la parmigiana di Mariapia o il tiramisù nella pipa a conclusione dell’esperienza. «Da poco abbiamo finalmente iniziato a collaborare con l’unico produttore biologico e certificato biodinamico del Marocco e che guarda caso è italiano. Vive in una provincia verso Agadir, si è trasferito qualche anno fa e ora ci riforniamo quasi esclusivamente da lui, innestando le semine e scegliendo i cicli di produzione. Tra poco dovrebbero arrivarmi le prime cime di rapa del Marocco!».
Riccardo ci racconta di come trovare farine di qualità sia drammatico. «Nemmeno la farina 00 esiste! Qui non ci sono distinzioni, hanno un unico prodotto generico e fatto senza alcun pensiero alla base. Dopo innumerevoli tentativi siamo finalmente riusciti a collaudare un pane di Altamura realizzato con il siero fermentato del latte. Dovete pensare che il lievito madre qui non sanno che cosa sia, per non parlare di macinatura o forza della farina».
Riccardo racconta entusiasta la sua esperienza lavorativa, le sue nuove responsabilità ma anche il gap culturale che divide il personale locale dal resto dello staff italiano. La difficoltà non sembra giocarsi nell’inesperienza tecnica quanto realmente nella mancanza assoluta di un senso del lavoro, di un ordine mentale e di una predisposizione in materia.
«Stiamo lavorando a una vera e propria accademia di formazione Royal Mansour, che ci possa aiutare a formare i giovani che prendiamo dalla strada e farli diventare professionisti ferrati in materie diverse» ci racconta Mauro Meneghetti responsabile del ristorante Sesamo e punto di riferimento significativo all’interno del reparto F&B del Royal Mansour. «Dall’accoglienza, alla ristorazione, dalle cucine alla sala alla pulizia. Ai lavoratori viene imposto l’obbligo di docciarsi tutti i giorni prima di venire al lavoro, di essere sbarbati, in ordine e di presentarsi in orario. Sembra l’abc ma vi assicuro che non è per nulla scontato da queste parti».
La tipologia di clientela varia dall’italiano stanco di giornate intense di spezie e tagine così come dell’ospite dell’hotel in cerca di una cena raffinata, facile da apprezzare e allo stesso tempo riconducibile a delle coordinate precise. «Nell’ottica di provare a distinguere la proposta e puntare sempre di più verso un fine dining, abbiamo provato a togliere la parmigiana di melanzane di Mariapia ma non c’è stato verso, è stata reclamata a gran voce e abbiamo dovuto tenerla nel menu. Diversamente rischiavamo di perdere uno zoccolo duro di clientela che ci siamo (faticosamente) guadagnati nel tempo» racconta lo chef.
Come spesso succede, questi innesti all’estero sono un mondo nel mondo, una specie di matrioska dove una cultura si inserisce in una diversa ospitante, dando origine a una terza dimensione ancora di saperi, umanità, relazioni, esperimenti, traguardi e difficoltà. Nell’ottica curiosa e quasi scolastica di essere al corrente di che cosa viene esportato del fine dining nazionale all’estero, Sesamo è in assoluto uno dei progetti più riusciti dove apprezzare la grande Italia a tavola.
Cover image courtesy Sesamo – Ristorante Alajmo, Marrakech