La prima stagione di Newsroom, la serie tv di Aaron Sorkin su una trasmissione giornalistica della tv americana, ruotava intorno alla definizione che il protagonista Will McAvoy, un anchor man conservatore, dava dei nuovi estremisti di destra che si erano affacciati alle porte del Partito Repubblicano. Era il 2012, il periodo dei Tea Party: McAvoy li aveva definiti in diretta televisiva «Talebani d’America».
I nuovi ribelli di destra erano certamente dei picchiatelli, così come lo erano i cugini di sinistra di Occupy Wall Street (anche loro dileggiati da McAvoy in tv), e i loro epigoni internazionali hanno fatto danni a tutte le latitudini, comprese le nostre.
Ma Barack Obama aveva appena vinto per la seconda volta le elezioni presidenziali e in Italia eravamo agli albori del populismo grillino, sicché la preoccupazione degli autori di Newsroom sembrava esagerata e la sceneggiatura militante della serie più adatta a un editoriale del New York Times.
Il tempo però ha dato ragione a quegli autori e a quell’editoriale, con l’assalto dei fuori di testa al parlamento di Washington il 6 gennaio 2021, aizzati da un presidente imbroglione che, dopo aver tentato di falsificare a suo favore i risultati elettorali, ha cercato di mobilitare i suoi legionari per scongiurare la defenestrazione democratica decisa dal popolo americano.
Adesso la realtà ha superato la fantasia: Justin Mohn, un trentaduenne della Pennsylvania, due giorni fa è stato arrestato con l’accusa di aver decapitato il padre, che secondo lui aveva tradito il paese perché lavorava per il governo federale americano guidato da Joe Biden. Justin Mohn ha decapitato suo padre con un coltello e un machete, e poi ha mostrato la testa in un video postato su YouTube, proprio come fanno i guerrasantieri islamisti.
Un Talebano d’America, insomma, ma non come l’originale “American Taliban” John Walker Lindh che si era convertito al sunnismo e nel 2001 è stato catturato in Afghanistan mentre combatteva contro gli americani, piuttosto come quello descritto da Newsroom, e quindi molto più pericoloso perché combatte gli americani in America, addirittura dentro casa, esasperando alla vigilia delle elezioni presidenziali di novembre un dibattito politico già oltre i livelli sostenibili di tossicità.
Justin Mohn certamente è un caso isolato, almeno per ora, ma il 6 gennaio di tre anni fa ad assaltare il Congresso erano in migliaia e sono ancora centinaia di migliaia i fanatici sostenitori di un candidato alla presidenza, già condannato per abusi sessuali e sotto processo per mille altre cose, che ci riprova minacciando vendetta contro gli avversari e sospensioni temporanee della Costituzione per eseguirla.
Che Donald Trump sia un pericolo per la democrazia americana (e per il mondo) non lo dicono soltanto i fatti, i processi e i suoi avversari, ormai a gridarlo a voce alta ai sonnambuli repubblicani sono i suoi ex più stretti collaboratori e ministri che gli stavano intorno durante il mandato alla Casa Bianca.
In questo scenario, prepariamoci, le elezioni americane del 5 novembre potranno solo finire male oppure in catastrofe.
Se Joe Biden vincerà, come quattro anni fa, il mondo, e in particolare noi europei, tirerà un sospiro di sollievo, ma Trump non accetterà la seconda sconfitta personale e i tumulti del 6 gennaio 2021 scatenati in occasione della prima débâcle rischieranno di essere ricordati come un’esercitazione rispetto a quello che potrebbe succedere in questa occasione.
Il finale peggiore, catastrofico, ovviamente è la vittoria di Trump e la fine della democrazia americana, nel breve dell’Ucraina come paese indipendente e poi dell’Europa come continente libero.
Biden è più che attrezzato a battere Trump, già quattro anni fa lo ha surclassato con sette milioni di voti in più, e del resto Trump ha perso tutte le elezioni possibili dopo il 2016: midterm, nazionali e federali. Quindi non siamo già spacciati.
Il punto incomprensibile è perché rischiare la catastrofe certa quando è ben scritto nelle leggi e nella Costituzione che chi ha tentato un colpo di Stato non può fare il comandante in capo e riprovarci, ma al massimo il capocella di un penitenziario federale e restarci.
La tesi per cui Trump non va fermato in tribunale ma nelle urne è in teoria giusta, ma in pratica surreale: Trump è stato battuto alle urne, non in tribunale, e nonostante ciò ha tentato un colpo di Stato, scatenando i suoi Proud Boys in una caccia agli avversari politici, compreso il suo vicepresidente Mike Pence, durante la quale sono morte nove persone, centinaia sono rimaste ferite, milleduecento sono state arrestate, molte delle quali processate e condannate.
In caso di nuova sconfitta, siamo certi che Trump lo rifarà, sta già dicendo da mesi che le elezioni sono truccate, lo aveva già detto prima del voto del 2016, dimenticandosene perché poi vinse grazie anche all’aiutino di Putin, e lo aveva detto prima delle elezioni del 2020, adoperandosi subito dopo per truccarle lui stesso («trovatemi 11 mila voti, me ne basta uno in più») e poi per assaltare i deputati e i senatori riuniti al Congresso per certificare la vittoria di Biden.
Tra un esito brutto e uno disastroso delle elezioni americane, non c’è dubbio che sia meglio che i tribunali e le giurie popolari applichino le leggi e condannino Trump per i reati commessi, invece che astenersi politicamente dal farlo per non offendere i Talebani d’America, i quali sono già pronti a riassaltare le istituzioni o a festeggiare la fine della democrazia.
Will McAvoy in Newsroom li descriveva così: «Purezza ideologica. Compromesso come debolezza. Fede assoluta nelle Scritture bibliche. Negazione della scienza. Insensibilità ai fatti. Imperturbabilità di fronte a nuove informazioni. Paura ostile del progresso. Demonizzazione dell’istruzione. Necessità di controllare il corpo delle donne. Grave xenofobia. Mentalità tribale. Intolleranza al dissenso. Odio patologico nei confronti del governo degli Stati Uniti. Possono chiamarsi Tea Party. Possono chiamarsi conservatori. E possono anche chiamarsi repubblicani, anche se i repubblicani certamente non dovrebbero farlo. Ma dovremmo chiamarli per quello che sono: i Talebani d’America».
Anche il loro capo va chiamato per quello che è: un ciarlatano razzista e stupratore, pronto a sovvertire la democrazia americana e a sacrificare l’Europa semplicemente per soddisfare il proprio ego.