«Nosce te ipsum»Il posto dell’uomo nella natura e la presunzione di sentirsi eccezionali

In “Umani e non umani. Noi siamo natura”, nuovo titolo della serie “Dialoghi di Pistoia” (UTET), otto pensatori riflettono sul nostro senso di responsabilità verso gli altri abitanti di un Pianeta complesso e deturpato. Pubblichiamo un estratto del racconto di Guido Barbujani, genetista e biologo evoluzionista

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Meglio dirlo subito: la questione di quando siamo diventati umani potrebbe dimostrarsi di lana caprina. La pensava così nientemeno che Charles Darwin: la risposta, scriveva, non dipende da differenze naturali obiettivamente riconoscibili, ma solo da come, soggettivamente, definiamo “umano”. D’altra parte, era stato lo stesso Darwin a porre la domanda: prima di lui non c’era bisogno di chiedersi da quando, si pensava che fossimo umani da sempre, cioè dal momento in cui eravamo stati creati. Ma andiamo con ordine. 

C’è voluto un po’ per capire che posto occupi l’uomo nella natura. Aristotele ci classificava già fra gli animali, in particolare fra quelli provvisti di sangue, ma a lungo molti hanno pensato che siamo troppo speciali perché abbia senso confrontarci con gli altri esseri viventi. Dobbiamo al naturalista svedese Carl von Linné, italianizzato in Linneo, la prima classificazione sistematica degli organismi. A partire dal 1735, nelle tredici edizioni del suo Systema naturae (la prima di undici pagine, l’ultima di tremila), Linneo battezza con cognome e nome, cioè genere e specie, gli animali e le piante. Il gatto è Felis catus, la quercia Quercus robur, noi Homo sapiens, eccetera. Linneo fa qualche errore, ma correttamente ci colloca fra gli antropomorfi, che in seguito chiameremo “primati”. 

Qui importa sottolineare una sua scelta significativa: nel Systema naturae c’è una descrizione di ogni pianta e ogni animale, ma a proposito di Homo sapiens Linneo scrive soltanto «Nosce te ipsum», conosci te stesso. Non c’è bisogno di dire chi siamo, lo sappiamo già. Linneo la fa facile, e per forza: come quasi tutti i suoi contemporanei è un creazionista, convinto cioè che ogni specie sia stata creata così com’è, immutabile; le scimmie sono sempre state scimmie e noi siamo un’altra roba: da sempre. Questa concezione va in crisi con Lamarck e poi, definitivamente, con Darwin. 

Lamarck e Darwin capiscono che specie diverse discendono, con modifiche, da antenati comuni. Significa che, risalendo nel tempo per qualche milione di anni, specie oggi ben distinte, diciamo tigri e leoni, si ritrovano insieme nella stessa specie di felini ancestrali, cioè hanno gli stessi antenati. «Quando mi sono convinto che le specie fossero prodotti mutevoli, non ho potuto evitare di credere che la specie umana fosse sottoposta alla stessa legge», scrive Darwin nell’Autobiografia. Molti anni prima, in una lettera al botanico Jenyns, aveva confessato quanto gli costava pensarla così: 

«La conclusione generale a cui sono giunto, lentamente, partendo dalla convinzione opposta, è che le specie sono mutevoli, e che specie simili discendono insieme da antenati comuni. Sono consapevole di quanto mi esponga al biasimo per tale conclusione, ma l’ho raggiunta, almeno, onestamente e deliberatamente. Non pubblicherò su questo argomento ancora per parecchi anni». 

Perché il giovane Darwin era così preoccupato, tanto da proporsi di tenere la bocca chiusa per parecchi anni (saranno quindici)? In realtà, le sue teorie hanno incontrato subito un grande successo, ma con un’ombra. La difficoltà, per molti suoi contemporanei, stava in quello che per Darwin era un dettaglio, cioè l’idea che, come tutti gli esseri viventi, anche noi ci fossimo evoluti. Nel romanzo di Thomas Mann Confessioni del cavaliere d’industria Felix Krull, il protagonista, che si finge marchese, scambia quattro chiacchiere in treno con un naturalista:

«Ma l’uomo, si sente sempre dire, deriva dalla scimmia?». «Caro marchese, diciamo piuttosto: esso deriva dalla natura, e in essa ha le sue radici. Dalla somiglianza della sua anatomia con quella delle scimmie superiori non dovremmo lasciarci eccessivamente suggestionare. Gli occhietti azzurri muniti di ciglia e la pelle del porco hanno ben più elementi umani di qualunque scimpanzé. […] Vi sono state non una, ma tre generazioni spontanee: il sorgere dell’essere dal nulla, il risveglio della vita dall’essere, e la nascita dell’uomo».

Sono le teorie, piuttosto sconclusionate a onor del vero (chissà cosa sarà mai una «generazione spontanea»), di un grande e influente patologo tedesco, Rudolf Virchow, cocciuto avversario dell’idea darwiniana che valgano per l’uomo le stesse leggi naturali che valgono per tutti. In effetti, per dimostrarlo, a metà dell’Ottocento a Darwin mancava ancora un tassello decisivo. La prova dell’evoluzione sta nei fossili: la scoperta che piante e animali del passato erano abbastanza simili agli attuali da suggerire parentele (come il mammut con l’elefante), ma anche abbastanza diversi dagli attuali (come mammut ed elefante), dimostra che nel corso del tempo gli organismi sono cambiati, cioè si sono evoluti. Fossili umani arcaici, però, fino al 1856 non se ne conoscevano; e dunque si poteva sostenere che noi fossimo un’eccezione, l’unica.

Le cose cambiano quando, nel 1856, in una cava nella valle di Neander, in Germania, vengono alla luce una calotta cranica molto schiacciata e altri resti umani. Lo zoologo che per primo li esamina, Hermann Schaaffhausen, conclude che si è finalmente scoperta una forma umana arcaica, l’Uomo di Neandertal, ed è la prova che anche noi siamo arrivati per gradi a essere quello che siamo. Scoppiano polemiche feroci in cui si distinguono illustri scienziati tedeschi, il già citato Virchow e il paleontologo August Mayer. 

Quel cranio, affermano, appartiene in realtà a un uomo moderno: forse a un cretino (il termine aveva connotazioni cliniche ben definite, all’epoca), forse a un polacco; oppure a un cosacco rachitico, andato a morire nella cava durante le guerre napoleoniche. Intanto, però, circolano per l’Europa calchi e disegni del cranio di Neandertal, e un anatomista inglese, George Busk, nota come somigli a un altro cranio, rinvenuto in precedenza a Gibilterra, e a cui inizialmente non si era data importanza. La frase con cui Busk liquida definitivamente le polemiche è un piccolo capolavoro di sarcasmo: «Anche il professor Mayer troverà difficile sostenere che un secondo cosacco rachitico della campagna del 1814 sia andato a morire in un anfratto della rocca di Gibilterra».

Da quel momento in poi si accumuleranno le prove – fossili, archeologiche, e oggi anche genetiche – che sulla terra si sono avvicendati parecchi nostri parenti. A seconda di quanto ci somigliano, li abbiamo attribuiti al genere Homo, o al genere Australopithecus, o ad altri. Ci assomigliano, ma bisogna intendersi: se incontrassimo per strada Lucy, il più famoso australopiteco, non le offriremmo un caffè, cercheremmo piuttosto di affidarla alle cure della Protezione animali. E allora ha senso chiedersi quali siano le relazioni fra loro e noi, e da che momento in poi abbia senso chiamarli esseri umani. 

Darwin trovava tre particolarità nella nostra specie: stare su due piedi (per inciso, cosa rarissima fra i mammiferi), avere un cervello enorme, e disporre della facoltà del linguaggio. Oggi che conosciamo tanti fossili – e la collezione continua a espandersi: dal 2004 al genere Homo si sono aggiunte quattro nuove specie: floresiensis, denisova, naledi e luzonensis – sappiamo che si è evoluta per prima la caratteristica in apparenza meno nobile, andare su  due gambe, e le altre sono arrivate di conseguenza. Il passaggio al bipedismo ha messo in moto un formidabile processo di selezione naturale, che alla fine ci ha dotati di un cervello sovradimensionato e del linguaggio articolato.

Da “Umani e non umani. Noi siamo natura”, di Marco Aime, Federico Faloppa, Adriano Favole, Guido Barbujani, Irene Borgna, Emanuela Borgnino, Ugo Morelli, Marco Paolini; UTET; 144 pagine; 16 euro

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