L’incredibile vicenda del pastore Beniamino Zuncheddu, assolto dopo trentadue anni di condanna all’ergastolo, deve scuotere la coscienza civile del Paese sulla terribile condizione nelle carceri italiane – in cui migliaia di detenuti sono abbandonati al proprio destino come in una grande discarica umana.
La “fortuna”, se così possiamo definirla, dello sventurato è aver trovato sulla propria strada un avvocato degno del nome, che meriterebbe un’onorificenza al valore civile per l’abnegazione e la dedizione alla funzione sociale di una professione spesso calpestata e disprezzata, ma che rappresenta per miglia di cittadini detenuti l’unico contatto con una parvenza di giustizia.
È stato il difensore di Zuncheddu, un giovane avvocato di Carbonia, Marco Trogu, a farsi carico di un naufrago della vita, svolgere con dei consulenti animati dalla stessa passione civile degli accertamenti tecnici sui luoghi della strage ascritta per poi presentare una memoria alla procura generale di Cagliari chiedendo correttamente la riapertura delle indagini, nella quale esponeva i risultati degli accertamenti e indicando con precisi riferimenti una pista alternativa individuata in un rapimento avvenuto nello stesso periodo e a un successivo regolamento dei conti tra gli autori del fatto.
Puntualmente la precisa ricostruzione operata dal difensore ha trovato orecchie disposte a sentire, quelle del capo dell’ufficio giudiziario Francesca Nanni, che ha imboccato l’unica strada percorribile, delle nuove indagini, ascoltando l’unico teste della strage che aveva accusato il condannato e disponendo intercettazioni su di lui che presto rivelavano come le dichiarazioni accusatorie fossero il frutto di suggerimenti di un inquirente. Sulla base di tali nuove risultanze è stato possibile richiedere la revisione del processo, una procedura formale la cui scansione ha seguito una ben precisa logica che andrebbe seguita in casi analoghi.
Cosa sarebbe stato di Beniamino se non avesse trovato l’avvocato Trogu? E quanti Zuncheddu giacciono nelle celle senza speranza?
Le politiche giudiziarie repressive hanno in comune l’illusione della forza come unico baluardo verso il pericolo gravante sulla pace sociale a opera di ciò che è considerato “diverso”: l’immigrato, l’oppositore politico, gli emarginati.
Da questo brodo di coltura, le ossessioni securitarie, nascono le ingiustizie e i terribili errori giudiziari come quelli del caso Zuncheddu.
Così come la stessa politica che accomuna negli anni destra e sinistra, (quale differenza può esservi tra la destra al governo e la presunta sinistra dei Cinquestelle?) avvelena i pozzi, moltiplica il ricorso alla galera, esclude il recupero sociale, alimenta i tribunali mediatici.
Ciò che non va dimenticato è che un errore così tremendo è emerso, purtroppo tardi, grazie a un corretto uso dei rimedi giudiziari posti dalle leggi, e che utilizzati con adeguata competenza da soggetti capaci hanno portato a risultati effettivi. Non esistono errori irrimediabili ma incapacità diffuse che li causano.
Il caso Zuncheddu deve costituire un preciso precedente per casi analoghi: per una singolare coincidenza in parallelo è emersa un’altra vicenda di supposto errore giudiziario, quello della strage di Erba, che ha in comune con quella sarda il medesimo procuratore generale, Francesca Nanni – passata a dirigere la procura generale di Milano – ma due diverse decisioni.
Nel caso di Olindo e Rosa, la richiesta di revisione, pur presentata da un magistrato dell’ufficio, ha trovato l’opposizione della titolare originando un duro contrasto su cui dovrà pronunciarsi il Consiglio superiore della magistratura.
A differenza della vicenda del povero pastore, seguita inizialmente dai soli radicali, la storia della revisione del processo di Erba è stata di fatto “sponsorizzata” da una popolarissima trasmissione di intrattenimento che fa un uso disinvolto di scoop veri o presunti.
I difensori dei condannati hanno sollecitato, prima, e poi presentato in prima persona una istanza di revisione basata su nuove prove di natura scientifica. Tra cui quella decisiva che riguarda il dna di una delle vittime, reperito dentro la vettura dei due condannati: la difesa assume che il verbale di individuazione e classificazione del reperto sia completamente falso e che in realtà il materiale genetico consegnato ai consulenti della procura fosse stato prelevato dal cadavere di una vittima.
Si tratta di una gravissima ipotesi di reato ritenuta plausibile dallo stesso sostituto procuratore Cuno Tarfusser, che per primo ha chiesto la revisione che dovrà essere discussa il prossimo primo marzo a Brescia.
Appare chiaro tuttavia che anche in questo caso la procedura più corretta sia quella seguita dalla difesa di Beniamino Zuncheddu (sempre che ne ricorrano plausibili presupposti): la riapertura delle indagini – il reato di omicidio è imprescrittibile così come non sono decorsi i termini di una eventuale calunnia – al fine di accertare supposte anomalie e volontarie alterazioni della scena del delitto, dei reperti e dei verbali. Un’attività da svolgere non sotto i riflettori ma con un’indagine riservata e approfondita e, qualora risultasse fruttuosa, tale da poter essere riversata in una nuova richiesta di revisione.
È questa l’unica strada per evitare un altro rischio altrettanto grave quanto quello legato all’abbandono di un innocente: che a determinare chi debba salvarsi siano gli scoop posticci dei media in nome dell’Auditel.